Brexit: Westminster potrebbe legittimamente opporsi al leave?

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Le norme costituzionali dell’ordinamento britannico potrebbero non consentire al primo ministro di azionare l’art. 50 del Trattato di Lisbona

A poche settimane dall’insediamento a Downing Street del nuovo primo ministro britannico Theresa May – la quale, in merito alle azioni che il suo governo porrà in essere a seguito dell’esito del referendum del 23 giugno 2016, ha lasciato intendere, formulando la lapidaria affermazione «Brexit means Brexit» che, l’esecutivo inglese, da lei guidato, darà seguito alla procedura di recesso ex art. 50 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) – riteniamo sia opportuno comprendere sul piano giuridico quale procedura di diritto costituzionale il governo UK dovrà necessariamente attivare al fine di poter legittimamente esercitare il diritto di recesso disciplinato dall’art. 50 del TFUE.

In particolare, allo stato, vari osservatori hanno posto la seguente questione: se il Trattato di Lisbona prevede che il recesso debba avvenire nel rispetto del diritto costituzionale dello Stato membro che intende avvalersene, al riguardo, cosa prevede il Constitutional law britannico in merito al ruolo del Parlamento inglese in relazione all’attivazione della procedura prevista dall’art. 50 TFUE?

Per completezza, precisiamo che sul piano costituzionale, oltre all’analisi del ruolo del Parlamento nella fase di attivazione del procedimento ex art. 50 TFUE, è possibile analizzare i poteri del predetto organo nelle fasi successive della negoziazione, discussione ed eventuale ratifica di un accordo internazionale tra Ue e UK sulle modalità di recesso e, infine, in relazione agli eventuali compiti e incombenti di Westminster in merito all’ultima fase dedicata all’abrogazione della legislazione Ue o di quella di sua derivazione presente dell’ordinamento britannico.

Di talché, il presente scritto, considerata la particolare e dirimente importanza dell’argomento, si concentra, esclusivamente, sull’analisi del ruolo del Parliament nella fase di attivazione del procedimento di cui all’art. 50 TFUE secondo il UK Constitutional law. 

Pertanto, tornando alla questione che ci occupa, preliminarmente è opportuno sottolineare che in applicazione dell’art. 50 TFUE:

«1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione.

2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.

3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine.

4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. Per maggioranza qualificata s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

5.  Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49.»

Dunque, l’inciso contenuto nel paragrafo 1 del predetto articolo, sottolinea, expressis verbis, la necessità che lo Stato membro decida di recedere secondo quanto statuito dal proprio diritto costituzionale.

Di conseguenza, per comprendere al meglio quale ruolo potrà ricoprire il Parlamento di Westminster sul piano costituzionale, nella complessa e delicata fase di attivazione del processo che dovrebbe portare al recesso del Regno Unito dal TFUE, appare opportuno delineare, seppur in modo sintetico, i principi, le regole procedurali, gli organi e i loro relativi poteri e, infine, gli istituti giuridici, dell’UK Constitutional law che in siffatte circostanze potranno risultare cruciali ai fini della corretta interpretazione delle norme applicabili.

Come rilevato da autorevole dottrina, il Regno Unito «non ha una costituzione scritta né una corte costituzionale che decida sulla legittimità costituzionale delle leggi». Tale caratteristica influisce sulle fonti di diritto costituzionale che devono essere individuate nella common law, in leggi scritte (statutes), le quali disciplinano «frammentariamente materie di importanza costituzionale» e in convenzioni costituzionali (c.d. convention of constitutions). Quest’ultime assumono un’importanza particolare posto che esse, pur essendo qualificate come regole non giuridiche (non-legal rules), sono, tuttavia, osservate in quanto regole politiche di comportamento. Dette norme consentono di attribuire al legal system britannico delle «caratteristiche irripetibili». Sul punto si è osservato come occorra distinguere tra «laws of constitution e conventions of constitution: le prime sono delle regole costituzionali di diritto che possono essere sancite dalle corti, le seconde […] non costituiscono delle regole giuridiche e, come tali, sono unforceable dal giudice». Tuttavia, osserva la dottrina, «esse svolgono un ruolo di fondamentale importanza nella costituzione britannica: basti pensare che il governo di gabinetto – la forma di governo britannica – è retto da quest’ultimo tipo di regole» [1].

L’ordinamento costituzionale britannico si ispira al fondamentale principio della supremacy of Parliament «per cui la legge del parlamento prevale su qualsiasi altra fonte di diritto; suo corollario è che non esiste la distinzione tra legge ordinaria e legge costituzionale; né […] il giudice inglese – a differenza di quello nordamericano – ha il potere di statuire sulla legittimità costituzionale della legge (c.d. “jucial review”)».

Al riguardo, si è rilevato come, per tali ragioni, «l’ordinamento costituzionale britannico» sia da considerare come «flessibile, non già perché non esiste una costituzione scritta, ma perché non è richiesta una maggioranza parlamentare qualificata per la modifica di materie aventi rilievo costituzionale o per l’adozione di nuove leggi nelle suddette materie». In ogni caso, nota il commentatore, il principio della supremacy of Parliament ha subito una notevole erosione con l’adesione del Regno Unito ai trattati istitutivi delle Comunità europee (ndr sul piano applicativo, la limitazione del prefato principio si è accentuata con l’adesione al Trattato di Lisbona e l’entrata in vigore del TFUE) che stabiliscono il primato del diritto comunitario su quello dei parlamenti nazionali nella materia comunitaria e, altresì, con l’introduzione dell’istituto del referendum […]» [2]. Al riguardo si rileva come nel caso della Brexit il referendum indetto avesse natura consultiva.

Per quanto attiene ai poteri della Corona si è osservato come la maggior parte del diritto relativo alla monarchia (Crown) sia «contenuta nelle royal prerogatives». Si tratta di poteri esercitabili in forza della Common law e non della legge scritta. Rientrano tra le Royal prerogatives «il potere del sovrano di concludere trattati internazionali, di dichiarare lo stato di guerra, di sciogliere il Parlamento, di grazia e molti altri inherent powers».

Ma, osserva l’autore, questi poteri sono, in effetti, «esercitati di volta in volta, su parere del governo, del primo ministro o del ministro competente; di modo che in definitiva, il controllo sull’esercizio delle royal prerogatives è, nella gran parte dei casi, effettuato dal Parlamento».

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In merito all’attività dell’esecutivo, si è sottolineato come il legal order britannico concreti «l’archetipo della forma di governo parlamentare». Al riguardo si può definire detta forma di governo, in modo ancor più corretto, come Cabinet government o, anche prime ministerial government.

Altra particolarità del constitutional legal system britannico consiste nel fatto che «esso non si ispira al principio della divisione dei poteri». In relazione a detta caratteristica del sistema inglese si è precisato come «a differenza della costituzione nordamericana che lo santifica (ndr il principio di divisione dei poteri) the fusion of powers […] remains the secret of the British system». Non a caso, nel British legal order  il «sovrano è non solo capo dell’esecutivo e del potere giudiziario, ma altresì parte integrante del potere legislativo; il Lord Chancellor nominato su parere del Primo ministro è il più alto magistrato del Regno Unito, Speaker della House of Lords, membro del Cabinet e, di fatto, ministro della giustizia che resta in carica con il governo; i magistrati sono nominati – senza concorso – su parere del primo ministro e del Lord Chancellor: quelli delle superior courts possono essere rimossi con decisione del Parlamento; le regole di procedura sono – in base  a una delega legislativa permanente – formulate dalla magistratura stessa e non dal legislatore; la House of Lords è un organo legislativo e allo stesso tempo il massimo organo giudiziario del Regno Unito; il giudice ordinario con la judicial review, esercita il controllo sugli atti della pubblica amministrazione, alla quale ultima può impartire degli ordini» [3].

Inoltre, si è rilevato come nel sistema inglese i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini non siano «consacrate in norme costituzionali, che del resto non esistono nemmeno […]» poiché «esse trovano la loro fonte in un complesso di principi e regole di leggi scritte e di diritto giurisprudenziale e in talune procedure e, ancor più, in una storia e in una cultura che le riconosce, indipendentemente dall’ingegneria costituzionale inevitabile altrove, anche se di rado sufficiente» [4].

Ebbene, tornando al tema specifico del ruolo del Parliament nell’attivazione del procedimento di cui al’art. 50 TFUE, occorre rammentare quanto affermato dall’ex Primo ministro David Cameron il 27 giugno 2016. In quel frangente lo statista ha affermato che «la decisione del popolo britannico di lasciare l’Unione europea deve essere accettata, e il processo di implementazione della decisione deve essere avviato nel miglior modo possibile» aggiungendo, poi, che il «Parlamento avrà chiaramente un ruolo nell’assicurare che il governo trovi la migliore via per dare seguito alla predetta decisione».

In relazione ai diversi orientamenti interpretativi formulati da vari giuristi ed osservatori britannici la House of Lords ha pubblicato il 4 luglio 2016 un Library note ove sono riportati i più autorevoli pareri in relazione al Parliament’s role nell’applicazione dell’art. 50 TFUE, secondo il diritto costituzionale britannico [5].

Nel documento in esame si osserva come in relazione a tale controversa questione giuridica taluni abbiano sostenuto che in forza dei prerogative powers il Primo Ministro avrebbe il potere di adottare autonomamente la decisione di notificare al Consiglio europeo la volontà del Regno Unito di lasciare l’Ue ex art. 50 TFUE.  Altri commentatori hanno affermato che il Parlamento dovrebbe certamente avere un ruolo nell’implementazione della predetta procedura. Viceversa, altra corrente di pensiero, riterrebbe necessaria una preliminare approvazione del Parlamento prima di procedere all’applicazione dell’art. 50 TFUE.

Al riguardo il Dr Alan Renwick, Deputy Director of University College London’s Constitution Unit, concorda con coloro che sostengono che il Parlamento non avrebbe il potere di intervenire in relazione al ‘se’ o al ‘quando’ l‘art. 50 TFUE dovrebbe essere invocato, poiché detto potere spetterebbe all’esecutivo in quanto rientrante tra i royal prerogative powers. Inoltre, il predetto commentatore, osserva che qualora il Parlamento dovesse approvare una mozione che imponesse al Primo Ministro di non invocare l’applicazione dell’art. 50 TFUE, ci si dovrebbe aspettare che egli (o forse, ella) rispetti detto atto, sebbene il Prime Minister potrebbe giustificare il fatto di aver ignorato tale pressione (ndr e quindi attivare la procedura di recesso dall’Ue) basandosi sull’autorità del voto popolare» [6].

Secondo David Allen Green, avvocato ed editorialista del blog ‘Jack to Kent’, in considerazione della mancanza di prescrizioni contenute in norme costituzionali che indichino esplicitamente come esercitare un potere previsto da un Trattato, la decisione prevista dall’art. 50 TFUE può essere adottata secondo diverse procedure, tra le quali v’è ne qualcuna che potrebbe contemplare un determinato ruolo per il Parlamento. Queste, in sintesi, le diverse situazioni prospettate dall’avvocato Green:

  • adozione di una decisione da parte del Primo Ministro in esecuzione di una Royal prerogative (ciò sarebbe da considerare una fictio juris secondo la quale il capo del governo può esercitare dei poteri in nome della Corona);
  • adozione di una decisione da parte del Primo Ministro o in consultazione con il suo Cabinet o a seguito del voto di detto organo (o, plausibilmente, seguendo la medesima procedura ma con la consultazione del Privy Counsil al posto del Cabinet);
  • adozione di una decisione da parte del Primo Ministro a seguito di una risoluzione o mozione della House of Parlament o, da parte di entrambe le Camere;
  • adozione di una decisione non da parte del Primo Ministro. Essa dovrà essere contenuta in un nuovo atto del Parlamento o in uno speciale strumento legislativo o ‘order of council’ oppure si può procedere all’adozione di una decisione in conformità a uno strumento legislativo esistente o simile;
  • ognuna delle soluzioni procedurali sopra prospettate in consultazione con i governi decentrati di Scozia, Galles e Irlanda del Nord o, perfino, previa acquisizione del loro consenso [7].

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Secondo Sionaidh Douglas-Scott, Anniversary Chair in Law presso la Queen Mary University of London, il Primo Ministro potrebbe procedere alla formale notifica al Consiglio europeo ex art. 50 TFUE, usando dei prerogatives powers. In ogni caso, nota la Scott, il Parlamento avrebbe un ruolo formale nella ratificazione dei trattati in applicazione del Constitutional Reform and Governance Act del 2010 e, inevitabilmente, gli sarebbe altresì riconosciuto, un ruolo nell’abrogazione dell’European Communities Act del 1972. Pertanto, sebbene non vi si chiarezza in merito ai requisiti costituzionali necessari per l’attivazione del prefato procedimento, l’autrice osserva come dovrebbe, almeno, esserci una motivazione di natura politica per la quale il Parlamento dovrebbe avere un ruolo nella procedura sopra richiamata. Di talché, la questione relativa all’individuazione del soggetto istituzionale che determini il ‘quando’ ed il ‘come’ la procedura di cui all’art. 50 TFUE dovrebbe essere attivata è certamente rilevante posto che esiste una larga maggioranza dei MPs che desidererebbe rimanere in Europa.  Secondo Douglas Scott, sussistono un paio di fattori per i quali il Parlamento necessiterebbe di essere coinvolto sin dalla fase iniziale. In primo luogo, «è possibile notare un aumento delle constitutional conventions secondo le quali i prerogative powers sono soggetti all’approvazione parlamentare come evidenziato dal voto della House of Commons in merito alla Siria nell’agosto 2013 […]».

In secondo luogo,  sussiste una minima possibilità di individuare un requisito di natura politica che imponga la necessità di arrivare all’approvazione parlamentare, ad una risoluzione o preferibilmente a un voto di maggioranza,  in relazione al  predetto iter procedurale di cui all’art. 50 TFUE posto che: (i) in ogni caso è necessaria una maggioranza parlamentare per abrogare o modificare l’European Communities Act;  (ii) ciò potrebbe richiedere un certo tempo fino all’apertura di formali negoziazioni;  (iii) nel medesimo periodo di tempo potrebbe essere formato un nuovo governo [8].

In relazione alla questione che ci occupa v’è un criterio interpretativo particolarmente suggestivo formulato da tre docenti universitari (Nick Barber, Tom Hickman e Jeff King) i quali hanno sostenuto che il Primo Ministro non potrebbe essere legittimato ad emettere una dichiarazione ex art. 50 TFUE senza prima essere stato autorizzato a ciò mediante un atto del Parlamento di Westminster. Al riguardo essi affermano che: (i) quando una Royal prerogative confligge con una legge scritta (statute) quest’ultima prevale sulla prima;  (ii) il Governo non può non riconoscere dei diritti attribuiti dal Parlamento minando quanto disposto in una legge scritta (statute).

Nella loro analisi, l’attivazione della procedura prevista dall’art. 50 TFUE da parte del Governo, necessariamente, avverrebbe mediante il superamento dell’European Communities Act del 1972  e la sua dichiarazione di nullità. Ciò comporterebbe la rimozione di diritti dei cittadini britannici sanciti dall’European Parlamentary Act 2002 il quale disciplina il diritto di voto e di candidatura al Parlamento europeo. I predetti commentatori asseriscono che il Governo non può rimuove o rendere nulli detti diritti senza l’approvazione del Parlamento poiché un prerogative power non può essere esercitata revocando diritti sanciti da una legge scritta.

Pertanto, prima che la dichiarazione di cui all’art. 50 TFUE possa essere emessa dal Governo è necessario che il Parlamento approvi ed emani una legge scritta (statute) con la quale si conferisce al Primo Ministro il potere   di emettere la notifica prevista dal predetto articolo del Trattato di Lisbona e, quindi, si consente l’uscita del Regno Unito dall’Ue [9].

Detta tesi è stata criticata da Kennet Armstrong. Al riguardo l’accademico ritiene che la scelta del referendum debba essere interpretata come un abbandono del principio di sovranità del Parlamento poiché la democrazia diretta, in tal caso, surclassa, la democrazia rappresentativa.   Secondo il suo pensiero, la decisione di recedere ha un effetto sui diritti e doveri concessi dal Parlamento mediante statute ma non attribuisce all’organo rappresentativo il diritto di autorizzare o non autorizzare il Governo ad attivare la procedura di cui all’art. 50 TFUE; semplicemente, fa sì che il Parlamento si adoperi affinché si dia seguito alle modifiche ed agli emendamenti delle leggi nazionali necessari affinché il Regno Unito esegua i suoi obblighi internazionali [10].

Altri commentatori hanno sottolineato come il principio di sovranità del Parlamento comporti un’approvazione dell’assemblea di Westminster in merito alla decisione di invocare l’applicazione dell’art. 50 TFUE.

Sul punto Charles Flint, con una lettera pubblicata sul Times, ha evidenziato il contrasto tra l’assunto secondo il quale la notifica ex art. 50 TFUE potrebbe essere inviata dal Governo senza la previa approvazione parlamentare e quanto statuito dall’European Union Act del 2011 secondo il quale una modifica al Trattato sul funzionamento dell’Ue, basato sul consenso degli Stati membri, richiederebbe un’approvazione del popolo britannico sia mediante referendum che tramite un atto del Parlamento [11].

Sulla medesima linea Sir Malcom Jack, Clerk of the House of Commons tra il 2006 e il 2011, secondo il quale prima di intraprendere ogni azione ex art. 50 TFUE da parte del Governo, la questione dovrebbe essere oggetto di una discussione da parte dei membri del Parlamento nel corso della quale essi dovrebbero valutare la questione come rappresentanti degli elettori ed esercitare il loro giudizio in merito a tale materia mediante un voto libero [12].

Egualmente Lord Lester ha osservato in una lettera al Times come l’art. 50 TFUE evidenzi in modo chiaro che la decisione di lasciare l’Ue è soggetta a disposizioni costituzionali le quali non prevedono che i ministri possano agire usando dei prerogative powers senza tenere conto dell’autorità del Parlamento. Secondo il pensiero di Lord Lester, l’art. 50 TFUE può essere applicato solo nel rispetto della volontà parlamentare espressa, appunto,  in un atto del Parliament. Qualora il Governo fosse in disaccordo con detta impostazione in merito alla questione interpretativa di natura costituzionale, essa potrebbe essere risolta in via giudiziale [13].

Geoffrey Robertson, sul Guardian, concorda con la tesi secondo la quale i fondamentali principi di diritto costituzionale britannico impongono al governo di applicare l’art. 50 TFUE solo previa approvazione parlamentare. Dunque, i Mps godono di tutti i diritti sulla predetta materia e, pertanto, se essi devono agire nell’interesse del Regno Unito a loro, in effetti, deve attribuirsi il dovere di votare per il remain [14].

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Lord Pannick ritiene che la notificazione ex art. 50 TFUE darebbe inizio ad un processo con il quale l’European Communities Act del 1972 diventerebbe “lettera morta” poiché l’atto della notifica impegnerebbe la nazione ad adottare una nuova normativa che abrogherebbe e sostituirebbe l’Act del 1972. Tuttavia, l’esercizio dei diritti spettanti al popolo britannico in esecuzione dell’art. 50 TFUE è materia che afferisce alle Royal prerogatives poiché essa riguarda situazioni di diritto internazionale e non di diritto interno [15].

Ciò nondimeno, secondo Lord Millet sussisterebbe una ragione politica che giustificherebbe l’approvazione parlamentare poiché, in pratica, sarebbe impossibile sul piano politico implementare l’art. 50 TFUE senza il consenso della House of Commons [16].

Nel corso del dibattito alla House of Lords in merito alla dichiarazione del Primo Ministro britannico sull’esito del referendum, Lord Wallace of Tankerness (Leader dei Liberal Democratici), Lord Lester of Herne Hill e Lord Elystan Morgan hanno formulato delle questioni in merito a quale tipo di ruolo potrebbe essere riconosciuto al Parlamento nella fase di implementazione dell’art. 50 TFUE. Dunque, tali fatti dimostrano quanto sia sentito il tema nel Regno Unito a tutti i livelli e come, pertanto, gli stessi membri del Parlamento, formalmente, abbiano cominciato a porre quesiti in merito alla materia oggetto di analisi [17].

Il 3 luglio 2016, lo studio legale Mishcon de Reya ha rilasciato una dichiarazione agli organi di stampa con la quale, agendo in rappresentanza di un gruppo di clienti, ha dichiarato che i soggetti da loro rappresentanti avrebbero inteso agire legalmente per assicurarsi che il Governo del Regno Unito non attivasse la procedura di cui all’art. 50 TFUE in assenza di un atto del Parlamento. L’azione è stata intrapresa affinché si potesse verificare che il governo nell’applicare l’art. 50 TFUE, rispettasse la UK Constitution e non violasse il principio di sovranità del Parlamento. Sul punto, concludevano gli avvocati della law firm inglese, qualora la corretta procedura costituzionale per la quale il Parlamento deve poter scrutinare e, eventualmente, approvare determinate misure non fosse seguita, la notifica ex art. 50 TFUE sarebbe da considerarsi illegittima [18].

Secondo David Allen Green il rimedio legale invocato dallo studio legale Mishcon de Reya potrebbe essere considerato come una “dichiarazione” di cosa l’art. 50, paragrafo 1 TFUE richiederebbe per essere applicato legittimamente, secondo la legge inglese. Pertanto, è logico presumere che potrebbero essere intentate azioni legali simili in Scozia e in Irlanda del Nord. In tal caso si potrebbe ipotizzare che non tutte le corti del Regno Unito potrebbero decidere di seguire quanto indicato dalle corti londinesi. Secondo l’autore, qualora il Parlamento dichiarasse, formalmente, che ai fini della corretta applicazione dell’art. 50 TFUE è necessario un Act of Parliament non potrebbero sorgere controversie legali al riguardo. Viceversa, qualora l’azione legale venisse intentata si discuterebbe la causa pubblicamente e, all’esito del giudizio, si potrebbe avere una decisione motivata su come applicare legittimamente l’art. 50 TFUE [19].

Altra corrente di pensiero ha sostenuto che il Regno Unito potrebbe recedere dal Trattato di Lisbona senza attivare la procedura di cui all’art. 50 TFUE purché il Parlamento abrogasse l’European Communities Act del 1972.

Sul punto il Governo inglese, in un proprio scritto dedicato alla procedura di recesso dal Trattato di Lisbona del Regno Unito, prima del referendum, ha osservato che la semplice abrogazione della legislazione nazionale che attribuisce efficacia giuridica al diritto Ue all’interno del UK si configurerebbe come un inadempimento alle obbligazioni di diritto internazionale che creerebbe un “ambiente ostile” nel quale procedere all’avvio delle negoziazioni in merito alle future relazioni tra UK, Stati membri e Stati terzi [20].

In relazione a detta tesi, Sionaidh Douglas-Scott ha rilevato come un tentativo di uso della legislazione nazionale per recedere dal Trattato di Lisbona si baserebbe su un erroneo concetto di sovranità. Si tratterebbe di una sorta di fusione del concetto di sovranità parlamentare con quello di sovranità esterna, il quale potrebbe giustificare un’interpretazione secondo la quale il Regno Unito può utilizzare l’assemblea di Westminster e la legge nazionale per gestire le sue relazioni con gli altri stati e le organizzazioni internazionali secondo i trattati internazionali. Ciò a causa di una errata concezione dell’idea di sovranità parlamentare. Secondo tale dottrina la sovranità nazionale non può essere invocata secondo i predetti criteri in ambito internazionale. Gli Stati sono tenuti ad osservare i trattati ed a rispettare le regole di adesione alle organizzazioni internazionali poiché essi ben sanno che cedendo parti di sovranità in alcune specifiche aree ottengono in cambio grandi benefici. Tale situazione si verifica poiché gli Stati, aderendo ai trattati, accettano di esercitare in comune la sovranità o di sottostare a determinate obbligazioni. Non a caso ci sono regole stabilite dal diritto internazionale e nei trattati in merito a come determinati obblighi debbono essere eseguiti. Dette prescrizioni non possono essere eluse dagli stati, semplicemente, basandosi sul concetto di sovranità parlamentare [21].

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In un recente scritto gli avvocati Dorothy Livingston, Gavin Williams and Nursat Zar dello studio legale Herbert Smith Freehills hanno rilevato come in applicazione di una regola generale, la conduzione della politica estera, inclusa la negoziazione e conclusione di trattati, sarebbe materia rientrante nelle Royal Prerogatives. Tuttavia la doctrine of parliamentary supremacy insegna che il Parlamento può abolire o modificare le finalità delle Royal Prerogatives. Se vi sono una norma scritta (statute) e una royal prerogative che disciplinano la medesima materia prevale il principio secondo il quale la prerogative è sospesa in favore dello statute. Detto principio è enunciato nella sentenza relativa alla controversia Attorney General v. De Keyser’s Royal Hotel [1920] AC 508. Nel predetto giudizio Lord Atkinson ha rilevato quanto segue: «quando uno statuto che esprime la volontà e l’intenzione del Re e dei tre poteri del regno è approvato, esso finché è vigente limita le royal prerogatives, pertanto, la Corona può solo compiere particolari azioni in conformità con le prescrizioni contenute nello statute e la legittimazione a compiere le predette azioni in forza dei prerogatives power è sospesa».

Inoltre, la prerogative non può essere usata per non dare seguito alla volontà parlamentare. Questo principio è stato enunciato nella decisione della House of Lords in R v Secretary of State for the Home Department ex parte Fire Brigades Union [1995] 2 AC 513. La sentenza in oggetto riguarda uno schema per il calcolo del risarcimento dei danni derivanti dalla commissione di un delitto che era stato adottato nel 1964 mediante l’esercizio di poteri rientranti nelle Royal prerogatives.  Successivamente, fu deciso di inserire il predetto schema nel Criminal Justice Act del 1988. La section della norma pertinente non fu mai resa efficace da parte del Segretario di Stato per l’Home Department nonostante ciò dovesse essere fatto. Anni dopo, il Ministero decise di apportare delle modifiche al predetto schema invocando le Royal prerogatives poiché l’originaria impostazione dei criteri di risarcimento era ritenuta essere eccessiva.  A seguito di un’istanza di revisione del Segretario di Stato, la House of Lords si espresse come segue:

  1. quando un Act del Parlamento riconosce una certa discrezionalità al Ministero in merito a quando determinate prescrizioni normative dovrebbero entrare in vigore, tale riconoscimento non autorizza comunque il Ministero a decidere che le predette prescrizioni non avranno alcun effetto. Semplicemente il cennato Act attribuisce al Ministero la facoltà di determinare quando è opportuno che le prescrizioni siano applicate in relazione alla disponibilità delle risorse e dei mezzi per la effettiva implementazione della legislazione in esame;
  2. successivamente all’emanazione di uno statute e, prima che esso entri in vigore, il Ministero non è legittimato ad utilizzare la prerogative al fine di ovviare alla necessità di implementare la legge scritta. E’, certamente, compito del Parlamento abrogare e sostituire la legislazione. Tale attività non può essere compiuta dal governo attraverso una Royal Prerogative.

Su tali basi si fonda la tesi interpretativa di Barber, Hickman e King sopra richiamata che ha suscitato particolari reazioni tra gli osservatori [22].

Una tesi alternativa è stata proposta da Tucker il quale sostiene che la section 2(2) dell’ European Community Act 1972 già prevede una procedura specifica per l’applicazione dell’art. 50 TFUE.  In sintesi, secondo l’autore per l’applicazione dell’art. 50 TFUE sarebbe necessario un Order of Council nella forma di statute che necessiterebbe di essere approvato da entrambe le Camere del Parlamento o, eventualmente, annullato dalle medesime.

La complessità della questione cui è chiamato a fare fronte il Governo di Sua Maestà si intensifica a causa anche della variegata conformazione delle percentuali di voto del referendum relative alle diverse nazioni (Scozia, Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra) che compongono il Regno Unito e, anche, delle regioni che formano l’Inghilterra.

Al riguardo si ponga mente all’esito del referendum in Scozia ove il 62% di votanti ha optato per il remain così come per il 55,78 % di soggetti in Irlanda del Nord che ha deciso anch’esso per la permanenza nell’Ue. E, contestualmente, lo si paragoni al 52,53 % di Gallesi che ha, viceversa, optato per il leave.

Egualmente, si pensi al notevole risultato del 59,93 % di votanti favorevole al remain nella zona di Londra e lo si confronti con il 59,26 % del West Midlans o con il 58,82 % dell’East Midlands o, ancora con il 58,19 %  del North West, tutti in favore al leave [23].

Dalla semplice lettura dei risultati sopra richiamati emerge in modo chiaro come all’interno del Regno Unito vi siano stati e, ragionevolmente anche nella fase di transizione fino alla eventuale attivazione del procedimento di cui all’art. 50 TFUE, continueranno ad esserci, forti contrasti tra la popolazione in merito ai rapporti con l’Unione europea. Invero, un siffatto scenario si caratterizza per la netta differenziazione di reazioni alla Brexit: recentemente i media si sono occupati della città di Oxford. Dall’inchiesta è emerso che la prestigiosa università e la città che la ospita sono «sotto shock. Brexit va contro il suo passato, il suo presente e ciò che questo posto vuol continuare a essere: assieme a Harvard, il più noto, citato e stimato centro planetario del sapere […]».

Paradossalmente, si osserva nell’articolo, oltre all’attuale Primo Ministro Theresa May, nella «sua storia Oxford annovera altri 26 primi ministri britannici e i protagonisti della tragicomica crisi politica di queste settimane, tra cui Margaret Thatcher, Tony Blair, David Cameron, i congiurati Boris Johnson e Michael Gove»; inoltre, «Nella più antica università inglese si formano studenti provenienti da ogni angolo del pianeta. Oltre 140 nazionalità, […]. Nel 2015 hanno studiato qui 22 mila giovani. Il 41% proveniva dal Regno Unito: il 15% di questi arrivava dall’Unione europea, che nell’anno accademico 2014-2015 ha contribuito con 66 milioni di sterline per la ricerca.» Continua, poi, l’autrice, sottolineando come «L’ateneo in aprile» si fosse espresso «ufficialmente contro l’uscita dall’Ue. Ora teme di perdere quei fondi e non solo. […]». Per quanto attiene agli studenti, l’articolo osserva come la preoccupazione di quest’ultimi sia palpabile posto che vi sono progetti sui quali i discenti lavorano che dipendono dalla collaborazione tra l’Ue e il Regno Unito. Il dilemma è il seguente: detti progetti saranno compromessi dalla Brexit? Conseguentemente, quale sarà il destino di coloro che ci lavorano?  Effettivamente, sottolinea l’osservatore, Oxford non rappresenta il paese [24], ma, certamente, aggiungiamo noi, è comunque da considerare come una sua voce autorevole.

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Similmente, i risultati del referendum relativi alla città di Londra ed all’area che la circonda  (59,93% a favore del remain), confermano i numerosi studi che hanno posto in evidenza come «il settore finanziario inglese sia stato particolarmente favorito dal processo di liberalizzazione e di apertura dei mercati normalmente associato al fenomeno della globalizzazione finanziaria» [25] e, come, pertanto, l’esito del 23 giugno 2016 risulti davvero scioccante, in primis per la City londinese ma, anche, per l’intera area che circonda la città la quale basa la propria economia sulle numerose attività connesse ai servizi erogati nella capitale.  Non a caso, le percentuali più alte in favore del leave, si sono avute nelle regioni distanti, economicamente e culturalmente, dall’area londinese: si pensi alla regione del North West ove, nelle città come Liverpool e Manchester ha vinto il remain con percentuali di tutto rispetto (58,19% a Liverpool e, addirittura 60,36% a Manchester), viceversa in aree agricole o, comunque, lontane dalle predette aree metropolitane, ha prevalso il leave con il 53,65%.

Situazione simile nel South West ove la città di Brigthon ha votato al 68 % per il remain, così come le città di Oxford (70,27 % a favore della permanenza in Ue) e Cambridge (73,85 % per restare in Europa) ma, il risultato complessivo pari al 51,78 % è stato per il leave.  Egualmente, in Galles, ha prevalso il leave con il 52,53 % nonostante, la principale città, Cardiff, abbia votato al 60 % in favore del remain.

Alla luce di quanto sopra osservato, considerata la particolare eterogeneità dei dati emersi dalla breve disamina dei risultati del voto del 23 giugno 2016 nelle nazioni facenti parte del UK e, soprattutto, all’interno delle numerose regioni dell’Inghilterra, è ragionevole presumere che, qualora risultasse dimostrato che il diritto costituzionale britannico impone al governo britannico la previa approvazione parlamentare per procedere, legittimamente, all’implementazione dell’art. 50 TFUE, diverrebbe dirimente comprendere come le diverse opinioni della popolazione in merito alla Brexit, rappresentate dai Members of Parliament (MPs)  a Westminster, potrebbero determinare, l’esito della complessa procedura di recesso dall’Ue del Regno Unito riservando, in ipotesi, anche una sua possibile svolta verso il ripensamento e la conseguente scelta di permanere in Europa.

Roberto Scavizzi

Foto © Wikicommons

[1] F. De Franchis, ‘Dizionario giuridico law dictionary inglese-italiano’, vol. 1, p. 27 e ss., Giuffré Editore.

[2] F. De Franchis, op. cit., p. 27 e ss.

[3] F. De Franchis, op. cit., p. 27 e ss.

[4] F. De Franchis, op. cit., p. 27 e ss.

[5] N. Newson ,Library Note, House of Lords, ‘Leaving the EU: Parliament’s role in the Process’, Updated 4 July 2016, LNN 2016/034. (http://researchbriefings.parliament.uk/ResearchBriefing/Summary/LLN-2016-0034#fullreport)

[6] N. Newson, op. cit., p. 3, Alan Renwick, ‘The Road to Brexit: 16 Things You need to Know about the Process of Leaving the EU’, Constitution Unit Blog, 24 giugno 2016.

[7] N. Newson, op. cit., p. 3, D. A. Green, ‘Article 50: Where Are We Now?’, Jack of Kent Blog, 26 giugno 2016.

[8] N. Newson, op. cit., p. 4, S. Douglas-Scott, ‘Brexit, The Referendum and the UK Parliament: some questions about Sovereignty’, UK Constitutional Law association Blog, 28 giugno 2016.

[9] N. Newson, op. cit., p. 4, N. Barber, T. Hickman, J. King, ‘Pulling the Article 50 ‘Trigger’: Parliament’s Indispensable Role’, UK Constitutional Law Association Blog, 27 giugno 2016.

[10] N. Newson, op. cit., p. 4, K. Armstrong, ‘Push Me, Pull You: Who’s [sic] Hand on the Article 50 Trigger?’, UK Constitutional Law Association Blog, 27 giugno 2016.

[11] N. Newson, op. cit., p. 4, Times, ‘EU Referendum Question Yelds No Answer’, 27 giugno 2016.

[12] N. Newson, op. cit., pp. 4,5, Times, ‘Parliamentary Sovereignty and Article 50’, 28 giugno 2016.

[13] N. Newson, op. cit., p. 5.

[14] N. Newson, op. cit., p. 5, G. Robertson, Guardian, ‘How to Stop Brexit: Get Your MP to Vote it Down’, 27 giugno 2016.

[15] N. Newson, op. cit., p. 5, Times, D. Pannick, ‘Why Giving Notice of Withdrawal from the EU Requires Act of Parliament’, 30 giugno 2016.

[16]  N. Newson, op. cit., p. 5.

[17] N. Newson, op. cit., p. 5.

[18] N. Newson, op. cit., p. 6, Mishcon de Reya, ‘Article 50 Process on Brexit Faces Legal Challenge to Ensure Parliamentary Involvment’, 3 luglio 2016.

[19] N. Newson, op. cit., p. 6, D.A. Green, ‘The Mishcon de Reya Legal Challenge on Article 50 – Some Thoughts’, Jack of Kent Blog, 3 luglio 2016.

[20] N. Newson, op. cit., p. 6, HM Government, ‘The Process for Withdrawing from the Eruopean Union’, Febbraio 2016, Cm 9216, p. 13.

[21] N. Newson, op. cit., p. 6.

[22] D. Livingston, G Williams, N. Zar dello studio legale Herbert Smith Freehills, ‘Artilce 50, Brexit – Triggering Article 50: What role for Parliament ?’, pp. 2,3 (https://www.herbertsmithfreehills.com/-/media/Files/PDFs/2016/brexit-triggering-article-50-final.pdf).

[23] Limes, Rivista italiana di geopolitica,’Brexit e il Patto delle anglospie. Saluti dall’isola dei cinque occhi’, 6/2016, p. 17.

[24] S. Chiale, Corriere della sera. Inserto ‘Io Donna’, 23 luglio 2016, ‘Dietro le apparenze. Gran Bretagna’, pp. 30,31.

[25] L. S. Talani, Limes, Rivista italiana di geopolitica,’Brexit e il Patto delle anglospie. La city, grande sconfitta’, 6/2016, p. 85.

 

 

 

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Roberto Scavizzi
Avvocato e docente universitario a contratto presso università private. L'attività accademica ha ad oggetto la materia dell'Informatica giuridica in ambito internazionale e la materia dei diritti d'autore. Come legale opera principalmente nel settore del diritto dell'impresa e svolge attività formativa professionale nel settore giuridico in ambito pubblico e privato. Inoltre è autore di pubblicazioni di diritto e articoli giornalistici per riviste d'arte e d'attualità.

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