Hillary ha perso perché gli USA non sono solo New York

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Dove Trump ha vinto e dove la Clinton ha perso: riflessioni su un’America molto diversa da quella delle immagini patinate che i media hanno descritto in campagna elettorale

Alla fine è successo quello che pochi, almeno qui in Europa, si aspettavano: il “rozzo” Donald Trump ha battuto nettamente l’ “aristocratica” Hillary Clinton e diventa il 45mo Presidente degli Stati Uniti. Uno schiaffone inatteso per i Democratici, che hanno avuto la grave colpa di aver impostato la campagna elettorale sullo spauracchio-Trump, e nel disegnare scenari apocalittici si sono dimenticati della regola-base da rispettare per conquistare la Casa Bianca: It’s the economy, stupid!, che suona come un «va’ incontro alle esigenze della gente e non divagare su questioni che al ceto medio, ai lavoratori precari e ai disoccupati non interessano». E invece la campagna elettorale dell’ex first lady si è incentrata quasi esclusivamente sul concetto che Donald Trump era unfit, inadatto a ricoprire l’incarico presidenziale, perchè razzista, evasore fiscale e misogino. Un clamoroso autogol, che per certi versi ricorda quello della “gioiosa macchina da guerra” dei Progressisti alle elezioni politiche del 1994, vinte a mani basse dal Silvio Berlusconi della “discesa in campo” .

Sostenitori di Donald TrumpLa gigantesca macchia rossa che appare in queste ore nei grafici diffusi da TV e social media dimostra che Trump ha vinto in quelle aree degli States abitate dai tanti “dimenticati” da Obama (e precedentemente da Bush jr e da Bill Clinton), un’eterogenea massa di popolazione che otto anni di presidenza Dem non solo non hanno aiutato a uscire dalla palude della crisi economica, ma ne hanno accentuato le paure e i timori per il futuro: una consistente parte di popolazione esclusa dai processi di globalizzazione, che sondaggisti ed esperti vari hanno praticamente ignorato durante questi mesi costellati da interminabili dibattiti televisivi, proiettando a tutto il Paese solo le intenzioni di voto di metropoli come New York e San Francisco, dimenticando le enormi differenze che corrono tra le grandi città e la cosiddetta America profonda.

Un colossale epic fail, come quello di tanti media europei, che per mesi ci hanno parlato di Stati Uniti molto diversi da quelli che stanotte si sono manifestati nelle urne. I vari inviati hanno forse prestato troppo affidamento a colleghi schierati con la Clinton, mancando la regola base di un buon giornalismo ovvero quella di toccare con mano la notizia prima di raccontarla. Troppo facile dipingere l’elettore di Trump come il classico zotico che va in giro armato, alla guida di un pick-up, si disseta con ettolitri di birra e addenta solo cibo-spazzatura che gli viene servito in polverosi fast-food. Queste sono macchiette, non elettori. Un necessario tour attraverso gli USA avrebbe mostrato che qualcosa stava cambiando, come si era capito già durante le primarie, quando The Donald era riuscito a fare il pieno di voti negli Stati affetti dalla desertificazione industriale, quando aveva portato alle urne percentuali cospicue di elettori per i quali la politica era solo un affare da burocrati di Washington.

Donald TrumpLa vittoria di Trump è il più eclatante voto di protesta della Storia: scegliendo lui gli elettori americani hanno votato contro un Sistema che non li rappresenta più, puntellato dall’aristocrazia politica dei Clinton e dei Bush da oltre trent’anni, che mai come ora si è rivelata lontana dall’Uomo della Strada. Non sbagliava il politologo statunitense Andrew Spannaus, quando nel suo profetico libro Perché vince Trump ha indicato il candidato repubblicano come un candidato «a sinistra non solo del suo partito, ma anche di Hillary Clinton»: l’ex tycoon ha vinto quando si è conquistato, in un assordante silenzio mediatico, il consenso degli operai di Detroit, dei minatori della West Virginia ma anche di quella media borghesia fatta di piccoli imprenditori e commercianti, mentre Hillary si faceva vedere circondata dai “belli & ricchi” dello show-biz: un clamoroso autogol d’immagine che ha trasmesso il messaggio di una futura Casa Bianca democratica sempre più circolo esclusivo, a cui i tanti Homer Simpson della provincia americana non erano ammessi. E i troppi contrasti nella società, che le varie amministrazioni succedutesi in questi anni hanno ignorato, si sintetizzano proprio nel sostegno alla candidata democratica da parte di Bruce Springsteen: The Boss ha votato per la Clinton ma il suo alter-ego in “Born in the USA”, se avesse potuto, avrebbe sicuramente scelto The Donald.

Alessandro Ronga
Foto © Wikicommons/Skidmore

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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