Coaguli nel sangue uccidono una persona ogni 37 secondi

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Al congresso “The International Society on Thrombosis and Haemostasis” di Berlino si parla di tromboemolismo venoso, terza malattia cardiovascolare dell’Occidente

Non tutti conoscono il tromboemolismo venoso, ma nel mondo occidentale la formazione di coaguli di sangue nelle vene uccide una persona ogni 37 secondi. Si tratta della terza più comune malattia cardiovascolare dopo la sindrome coronarica e l’ictus, circa il 15-20% dei casi riguarda pazienti che hanno un tumore. Questa patologia, le cui manifestazioni più comuni sono l’embolia polmonare (quella più grave) e la trombosi venosa profonda degli arti inferiori (la più frequente), ha un tasso annuale di mortalità doppio rispetto all’Aids, al cancro al seno, alla prostata e agli incidenti stradali combinati per anno. Causa ben 780mila morti in Europa e negli Usa ogni anno, mentre in Italia si verifica una media di 150-200 eventi nuovi eventi per centomila abitanti.

È quanto è emerso al congresso “The International Society on Thrombosis and Haemostasis” – Isth 2017 – a Berlino, dove sono stati presentati i primi risultati di Garfield Vte, uno studio prospettico, multicentrico, osservazionale, un registro globale che ha coinvolto 10.874 adulti in 28 Paesi, di cui 600-700 italiani. Lo studio è iniziato nel 2014 e si concluderà nel 2020. «Il tromboembolismo venoso» – spiega Walter Ageno, professore associato di medicina interna dell’Università dell’Insubria – «colpisce pazienti ricoverati in ospedale che hanno fatto interventi chirurgici, donne che assumono contraccettivi orali e può essere una complicanza della gravidanza. Le cellule tumorali inoltre producono sostanze procaugulanti quindi favoriscono la trombosi nel meccanismo di crescita e i pazienti oncologici ricevono chemioterapici che a volte possono favorire lo sviluppo di trombosi. Un altro fattore sono i cateteri venosi».

«La necessità di uno studio internazionale che coinvolge cinque continenti» – conclude Ageno, nella dichiarazione che ha rilasciato al cronista dell’Agenzia Ansa – «nasce dal fatto che negli ultimi anni le possibilità terapeutiche sono aumentate e si voleva capire come sta cambiando la gestione. I primi risultati dimostrano che la metà dei pazienti prende nuovi farmaci e l’altra metà prende quelli di vecchia generazione».

 

Klivia Böhm

Foto © Isth 2017

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