La riforma del Sistema comune europeo di asilo

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I flussi migratori: fenomeno strutturale da gestire con azioni a medio e lungo termine. In ballo ci sono gli equilibri geopolitici dell’area mediterranea, mediorientale e africana

Il 13 luglio 2016 la Commissione europea ha lanciato una serie di proposte di riforma del Common European Asylum System.

Il presente scritto prende in esame l’attività dell’Unione in tema di migrazione a partire dal lancio nel 2015 dell’Agenda europea relativa a tale settore per concludere con l’esposizione delle principali caratteristiche delle predette proposte normative, con alcune riflessioni di carattere geopolitico connesse al fenomeno dei flussi migratori.

Ebbene, è con la Commissione Juncker che la questione “migranti” si trasformava in argomento di primaria importanza per l’Europa. Non a caso essa, per esplicita volontà del presidente della Commissione europea era inserita tra le dieci priorità con il nome di Agenda europea per la migrazione (Comunicazione del 13 maggio 2015).

Nell’incipit del predetto documento Bruxelles precisava come nell’Agenda si intendesse far confluire «le varie iniziative che l’Unione europea» avrebbe dovuto intraprendere «subito e nei prossimi anni al fine di delineare un approccio coerente e globale» che permettesse di «cogliere i vantaggi e vincere le sfide che la migrazione reca in sé». Nell’immediato l’imperativo era «il dovere di proteggere le persone in stato di necessità».

Dunque, osservava Bruxelles, «la tragedia delle migliaia di migranti che rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo ci ha sconvolti tutti. La prima risposta immediata della Commissione è stata proporre un Piano d’azione immediata in dieci punti, che ha ottenuto il sostegno del Parlamento europeo e del Consiglio europeo e riscosso l’impegno degli Stati membri a intervenire concretamente per scongiurare altre perdite di vite umane». Per la Commissione, per giungere alla soluzione di siffatte problematiche si doveva procedere all’adozione di un «corpus essenziale di misure» legislative e all’attuazione di «una politica comune chiara e coerente».

Attraverso la soluzione della questione migratoria l’Europa puntava a ridare fiducia ai cittadini in merito alla capacità dell’Old Continent di «convogliare assieme gli sforzi europei e nazionali», di assolvere agli obblighi internazionali, ai doveri etici, di lavorare insieme in modo efficiente e nel rispetto dei principi di solidarietà e di responsabilità condivisa. Di talché la cooperazione tra gli Stati membri e i Paesi terzi coinvolti diveniva lo strumento cardine per giungere ad una soluzione efficacie della tragedia dei migranti. Al riguardo l’obiettivo della Commissione era il coinvolgimento di «tutti i protagonisti: Stati membri, istituzioni dell’Unione, organizzazioni internazionali, società civile, enti locali e Paesi terzi devono collaborare per dare corpo a una politica europea comune in materia di migrazione».

La Commissione riteneva fosse necessario adottare immediatamente le seguenti misure:

  • salvare vite umane in mare;
  • far fronte al gran numero di migranti in arrivo nell’Ue. Tale obiettivo poteva essere realizzato attraverso la ricollocazione;
  • adottare un approccio comune sugli sfollati bisognosi di protezione. Ciò poteva realizzarsi attraverso il reinsediamento.
  • Usare gli strumenti dell’Ue per aiutare gli Stati membri in prima linea.

A seguire il documento in esame indicava i quattro livelli di azione per una politica migratoria «equa, solidale e realistica» che se attuati avrebbero assicurato all’Ue una gestione del fenomeno della migrazione che garantisse il diritto di chiedere asilo, raccogliesse la sfida umanitaria e inquadrasse in un contesto europeo chiaro una politica comune in materia di migrazione che resistesse alla prova del tempo:

  • riduzione degli incentivi alla migrazione irregolare. In tal senso diveniva essenziale adottare un «quadro chiaro e ben attuato delle vie di accesso legali all’Ue (attraverso efficienti sistemi di asilo e dei visti)». Tale misura avrebbe ridotto i fattori che spingono all’ingresso e al soggiorno irregolari, contribuendo a migliorare la sicurezza sia delle frontiere europee che dei flussi migratori. Inoltre, era essenziale impegnarsi maggiormente oltre i propri confini per rafforzare la cooperazione con i partner internazionali, affrontare le cause profonde del fenomeno e promuovere modalità di migrazione legale che incentivassero la crescita e lo sviluppo circolari nei paesi di origine e di destinazione. Dunque, occorreva affrontare le cause delle migrazione irregolare e forzata nei Paesi terzi. Al riguardo, osservava il documento, i partenariati con i Paesi di origine e di transito sono essenziali e in tal senso già esistono consessi di cooperazione bilaterale e regionale sula migrazione che si arricchiranno se si amplierà il ruolo nel campo della migrazione e delle delegazioni dell’Ue nei Paesi strategici».

Al riguardo, precisava, Bruxelles, «un buon esempio di quanto ci sia da guadagnare nell’intensificare la cooperazione è la Turchia». A ciò era necessario affiancare una attività di repressione della tratta e del traffico di migranti. Quanto alla tratta di esseri umani si rilevava come la maggior parte dei trafficanti non operasse in Europa e come i soggetti arrestati sui barconi nel Mediterraneo fossero di norma l’ultimo anello della catena. Pertanto, uno degli obiettivi principali della cooperazione intensificata sopra descritta era lo smantellamento delle organizzazioni criminali locali e internazionali che controllavano le rotte della tratta.  Un ulteriore incentivo all’immigrazione irregolare consisteva nel garantire che il sistema di rimpatrio dell’Ue funzionasse in modo imperfetto. Al riguardo per consentire il corretto funzionamento del cennato procedimento occorreva anzitutto garantire che i paesi terzi rispettassero l’obbligo internazionale di riammettere i propri cittadini che soggiornavano irregolarmente in Europa.

  • gestione delle frontiere finalizzata al salvataggio di vite umane e a far sì che le frontiere esterne divengano sicure. L’Europa, oltre agli strumenti già esistenti, puntava ad integrare il quadro normativo già in vigore con un’ulteriore norma che disciplinasse la gestione delle frontiere in relazione a tutti gli aspetti inerenti le frontiere esterne dell’Unione.
  • onorare il dovere morale di protezione attraverso l’adozione di concreta, efficace e forte politica comune europea di asilo. Sul punto risultava evidente come l’Ue necessitasse di un sistema chiaro di accoglienza dei richiedenti asilo al suo interno. Tale obiettivo poteva essere raggiunto attraverso un’attuazione coerente del sistema europeo comune di asilo. Dunque, v’era la necessità di istituire un sistema comune di monitoraggio sistematico che esaminasse l’attuazione e l’applicazione delle norme in materia di asilo e promuovesse la fiducia reciproca. Altro strumento fondamentale il cui funzionamento andava migliorato era il Sistema Dublino. Era necessario implementare una maggiore condivisione delle responsabilità tra Stati membri. Si era osservato come il meccanismo di ripartizione delle responsabilità per l’esame delle domande di asilo (il cd. “Sistema Dublino”) non funzionasse come avrebbe dovuto.

Nel 2014 cinque Stati membri avevano trattato il 72% di tutte le domande di asilo presentate nell’Ue. Di talché emergeva in modo chiaro come l’Ue potesse e, dovesse, fornire un’assistenza ulteriore mediante l’applicazione integrale delle norme vigenti. L’identificazione biometrica e il rilevamento delle impronte digitali dovevano essere applicati correttamente.

  • una nuova politica di migrazione legale. Nel documento in esame emergeva in modo chiaro come fosse necessario adottare strumenti in grado di identificare i settori economici e i tipi di occupazione che subiscono o che avrebbero subito difficoltà di reperimento di personale o deficit di competenze. Dunque, l’impegno profuso per elaborare una nuova politica di migrazione legale avrebbe dovuto riflettersi nella modernizzazione della politica europea dei visti. Inoltre era necessario adottare e implementare nuove politiche di effettiva integrazione e massimizzare i vantaggi per lo sviluppo dei Paesi d’origine.

Nella predetta Comunicazione si indicavano delle definizioni in merito ai concetti di “ricollocazione” e di “reinsediamento”.

Invero, con il termine “ricollocazione” si sarebbe dovuto intendere la distribuzione tra gli Stati membri di persone con evidente bisogno di protezione internazionale.

Con il termine “reinsediamento” si intendeva il trasferimento di singole persone sfollate con evidente bisogno di protezione internazionale, effettuato su proposta dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati con il consenso del Paese reinsediato, a partire da un Paese terzo verso uno Stato membro in cui tali persone sono ammesse e ottengono il diritto di soggiorno e tutti gli altri diritti analoghi a quelli concessi ai beneficiari di protezione internazionale.

Successivamente, in data 7 giugno 2016 Bruxelles adottava una Comunicazione recante una serie di azioni tese alla creazione di un nuovo quadro di partenariato con i Paesi terzi nell’ambito dell’Agenda europea per la migrazione. Ancora una volta, a distanza di dodici mesi dal lancio dell’Agenda europea in tema di migranti, emergeva in modo evidente come le questioni migratorie fossero divenute la prima priorità nelle relazioni estere dell’Ue e come fosse necessario adottare misure operative regolari per far progredire l’Agenda. Si osservava come i dialoghi ad alto livello sulla migrazione e la politica europea di vicinato riveduta avessero dato nuova centralità alla migrazione nelle relazioni con i Paesi strategici.

Di talché appariva evidente come fosse necessario aumentare l’assistenza finanziaria, adottare nuovi strumenti innovativi per offrire un sostegno mirato, adottare misure operative per contrastare il traffico di migranti e impostare una gestione efficacie della migrazione in Europa per una politica efficace oltre i suoi confini.

Il documento puntava ai seguenti obiettivi a breve termine:

  1. salvare vite nel Mediterraneo;
  2. aumentare i tassi di rimpatrio nei Paesi di origine e di transito;
  3. consentire ai migranti e a i rifugiati di rimanere vicino a casa e di evitare viaggi pericolosi;

Dunque, era essenziale intervenire immediatamente insieme ai partner strategici, individuando azioni comuni al fine di:

  • collaborare con i partners strategici per migliorare il quadro legislativo e istituzionale sulla migrazione;
  • fornire assistenza concreta per sviluppare le capacità di gestione delle frontiere e della migrazione, offrendo anche protezione ai rifugiati;
  • aumentare i tassi di rimpatrio e di riammissione privilegiando il rimpatrio volontario e concentrandosi sul reinserimento;
  • arginare i flussi migratori e offrire al tempo stesso canali di migrazione legale, anche intensificando gli sforzi ai fini del reinsediamento;

In particolare, specificava la Commissione, il «fine ultimo del quadro di partenariato è un impegno coerente e modulato in base al quale l’Unione e gli Stati membri agiscano in modo coordinato mettendo insieme strumenti e leve per instaurare partenariati (patti) globali con i Paesi terzi volti a gestire meglio la migrazione nel pieno rispetto dei nostri obblighi in termini di assistenza umanitaria e diritti umani».

A breve termine, la Commissione, per «assicurare una migliore gestione della migrazione con i Paesi terzi e mettere ordine nei flussi migratori»  avviava discussioni con un numero limitato di Paesi terzi di origine e di transito prioritari al fine di elaborare dei patti. Tra questi Paesi vi erano la Giordania e il Libano.

Nel prossimo futuro avrebbero dovuto cominciare dei nuovi negoziati con Niger, Nigeria, Senegal, Mali ed Etiopia.

A lungo termine, avevano osservato i tecnici di Palazzo Berlaymont, l’Africa si confermava la regione prioritaria e di questo si sarebbe tenuto debitamente conto nell’attuazione dell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile nelle relazioni Ue-ACP dopo l’accordo di Cotonou, così come nella futura strategia integrata per l’Africa.

Sempre nel giugno 2016, la Commissione varava il Piano d’azione sull’integrazione dei cittadini di Paesi terzi (Comunicazione del 7 giugno 2016).

Tale atto rilevava come le società europee avrebbero continuato a diventare sempre più diversificate. Continuava, poi, il documento che ci occupa, precisando come, attualmente, «nell’Unione europea vivono 20 milioni di cittadini di Paesi terzi, ossia il 4% della popolazione totale». Di conseguenza, «la mobilità delle persone, a diversi livelli e per molteplici ragioni, sarà una caratteristica specifica del XXI secolo, sia a livello europeo che mondiale».

Sulla base di tali osservazioni, precisava Bruxelles, «l’Ue non deve accelerare il passo soltanto nella gestione dei flussi migratori, ma anche per quanto concerne le politiche di integrazione dei cittadini di Paesi terzi».

Da tempo, si osservava nel predetto atto, «l’Ue sostiene le politiche in materia di integrazione degli Stati membri. Nel 2014 il Consiglio di Giustizia e affari interni ha confermato i principi fondamentali comuni della politica di integrazione degli immigrati nell’Unione europea, adottati nel 2004, che definiscono un approccio comune all’integrazione dei cittadini di Paesi terzi nell’Ue».

Dunque l’obiettivo è «Garantire che tutti coloro che risiedono legittimamente e regolarmente nell’Ue, indipendentemente dalla durata del loro soggiorno, possano partecipare e apportare il loro contributo». Ciò «è essenziale per il benessere, la prosperità e la coesione futura delle società europee […] Un integrazione efficace dei cittadini di Paesi terzi è nell’interesse comune di tutti gli Stati membri».

Per quanto attiene agli strumenti politici essenziali per sostenere l’integrazione dell’Ue il documento in esame indicava le seguenti priorità specifiche da adottare sia a livello Ue che a livello degli Stati membri, al fine di rafforzare e sostenere l’integrazione nei principali settori politici:

  • Lo svolgimento di attività di sostegno ai cittadini dei Paesi terzi poste in essere quanto prima possibile nel corso del processo di migrazione risultava essere un «elemento essenziale per un’integrazione efficace. Pertanto, rilevava l’Ue, laddove possibile sarebbe stato opportuno prevedere, come punto di partenza, misure precedenti la partenza e precedenti l’arrivo destinate sia a coloro che provengono da un Paese terzo sia alla società di accoglienza.
  • L’istruzione e la formazione si erano dimostrate essere tra gli strumenti più efficaci ai fini dell’integrazione. Di talché era opportuno garantirne e promuoverne l’accesso il prima possibile.
  • L’occupazione è una parte fondamentale del processo d’integrazione. Dunque, occorreva sostenere l’imprenditorialità, anche attraverso l’accesso ai sistemi di microcredito esistenti, facilitare la convalida delle competenze e il riconoscimento delle qualifiche. Si riteneva opportuno migliorare le già esistenti politiche attive in materia di mercato del lavoro.
  • L’accesso ad abitazioni adeguate a prezzi accessibili risultava essere una condizione fondamentale affinché i cittadini di Paesi terzi potessero iniziare la loro vita nella nuova società. Egualmente, occorreva superare le problematiche connesse all’accesso ai servizi sanitari.
  • Il coinvolgimento dei cittadini dei Paesi terzi nella progettazione e attuazione delle politiche di integrazione si palesava essenziale ai fini dell’accrescimento della loro partecipazione e per migliorare i risultati in termini di integrazione. Conseguentemente, nell’elaborazione delle politiche di integrazione a livello europeo, nazionale o locale, occorreva prestare particolare attenzione agli aspetti connessi alla creazione di rapporti tra i cittadini di Paesi terzi e coloro che sono nati o risiedono da molto tempo nel territorio. L’integrazione si realizzava anche e, soprattutto, attraverso la realizzazione dei predetti obiettivi.
  • L’integrazione degli immigrati doveva essere considerata una priorità politica.
  • Il successo delle politiche di integrazione dipendevano fortemente dalla relazione tra un quadro politico strategico, coordinato e pluridimensionale da un lato e un adeguato sostegno finanziario dall’altro.

Secondo Bruxelles Il Common European Asylum System dovrà basarsi su standards minimi comuni. Esso deve essere regolamentato da un quadro legislativo che disciplina tutti gli aspetti della procedura d’asilo in modo armonico. L’attuale sistema concede un’ampia discrezionalità ai singoli Stati membri in relazione alle richieste di asilo. Il risultato è una forte differenziazione tra i diversi ordinamenti nazionali in relazione alle procedure afferenti il diritto d’asilo. Queste notevoli differenze facilitano  e incoraggiano le movimentazioni secondarie e il c.d. Asylum shopping.

Il 13 luglio 2016 la Commissione ha proposto una completa riforma del Common European Asylum System mediante la creazione di una procedura disciplinante la richiesta di protezione internazionale all’interno dell’Ue.

In pari data, in merito a tale argomento, la Commissione europea ha pubblicato il Fact sheet intitolato Reforming the Common European Asylum System: Frequently asked questions contenente tutta una serie di chiarimenti in merito ai contenuti delle proposte di riforma legislativa in tema di  protezione internazionale. Di seguito i punti, a nostro avviso rilevanti, indicati nel predetto documento.

In primis precisa l’Ue, tale nuova normativa dovrà essere contenuta in un regolamento (The Asylum procedure Regulation) che sostituirà l’attuale normativa contenuta nella  direttiva 2013/32/Ue del 26 giugno 2013 recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale rifusione.

L’adozione della prefata legislazione dovrà assicurare la massima armonizzazione dei criteri per la qualificazione e il concetto di protezione dei rifugiati e dei beneficiari della protezione sussidiaria. Anche tali obiettivi dovranno essere raggiunti mediante l’adozione di un regolamento che sostituisca la vigente direttiva in materia.

La direttiva, attualmente in vigore, disciplina le procedure per l’eventuale ottenimento della protezione internazionale. Essa consente una differenziata disciplina da Stato membro a Stato membro del tempo necessario per esaminare l’istanza, delle garanzie procedurali, dell’utilizzo delle procedure accelerate o di quelle inerenti l’inammissibilità dei ricorsi. Le procedure correnti sono  generalmente troppo complesse e non consentono in ogni Stato membro un eguale trattamento per tutti i richiedenti. Tali discrepanze tra i vari Stati membri favoriscono l’Asylum shopping, i movimenti secondari e un forte squilibrio tra le varie nazioni in merito alle domande di protezione internazionale inoltrate.

Secondo i tecnici di Palazzo Berlaymont il nuovo quadro normativo si baserà sull’utilizzo dello strumento legislativo del regolamento posto che,  a differenza della direttiva, il predetto atto di diritto derivato non necessita di una implementazione all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale, pertanto, la sua applicazione risulta diretta, chiara, precisa e uniforme in tutti gli Stati membri.

I principali obiettivi della normativa oggetto delle proposte legislative della Commissione sono:

  • creare una comune procedura per l’ottenimento della protezione internazionale applicabile con la medesima modalità in tutti gli Stati membri;
  • rendere la procedura più veloce, semplice ed efficace;
  • fornire gli strumenti alle autorità nazionali per esaminare e decidere in merito alle istanze, combattere gli abusi e prevenire i movimenti secondari;
  • assicurare garanzie procedurali per i richiedenti.

La nuova proposta di regolamentazione, spiega Bruxelles, descrive chiaramente  i vari passaggi procedurali dalla fase iniziale alla fase finale assicurando l’adozione di una comune procedura in tutti gli Stati membri. Nella nuova normativa sono indicati i termini, le scadenze i compiti e le responsabilità delle autorità nazionali competenti per quanto attiene ad ogni singolo passaggio della procedura. Inoltre, la norma precisa in modo più chiaro gli obblighi, i diritti e le garanzie procedurali a favore dei richiedenti.

L’accesso alla procedura per l’ottenimento della protezione internazionale si basa su tre macro fasi: proposizione della domanda, sua registrazione e, infine, suo deposito.

Al riguardo, l’Ue, chiarisce cosa debba intendersi con i termini “proposizione”, “registrazione” e “deposito”. Ebbene, si ha  proposizione della domanda allorché la persona esprime il suo desiderio di ricevere protezione internazionale da parte di uno Stato membro. Dal momento in cui la domanda è proposta la persona che ha formulato tale richiesta è considerata soggetto richiedente legittimato a beneficiare dei diritti previsti dall’Asylum Procedure Regulation in base ai requisiti di ricezione della domanda previsti nella direttiva.

Il richiedente dovrà essere registrato prontamente e, in ogni caso entro tre giorni lavorativi dal deposito della domanda. Le autorità che operano la registrazione hanno l’obbligo di informare il richiedente in merito ai suoi diritti e ai suoi doveri e anche delle conseguenze derivanti dal mancato rispetto delle norme procedurali.

Per quanto attiene all’ultima fase della procedura il richiedente deve essere posto in condizioni di depositare la sua richiesta entro dieci giorni dalla sua proposizione. Il richiedente, a sua volta, entro il medesimo termine è tenuto ad indicare tutti gli elementi necessari per l’ottenimento del provvedimento. In difetto di ciò, la richiesta decade.

La durata del procedimento non può superare i sei mesi a far data dal deposito della domanda. Un’eventuale proroga di tre mesi potrà essere concessa in casi eccezionali di “disproportionate pressure” o qualora la domanda abbia ad oggetto un caso particolarmente complesso. La differenza con l’attuale normativa è sostanziale poiché quest’ultima prevede la possibilità di prolungamento della procedura fino a 9 mesi. Inoltre la procedura può essere temporaneamente sospesa per massimo quindici giorni nel caso in cui vi sia un cambio del Paese d’origine.

E’ prevista una riduzione dei tempi della procedura qualora sia necessario esaminare la domanda celermente (in tal caso il termine è di due mesi) o valutare l’ammissibilità della domanda (in siffatta circostanza il termine si riduce ad un mese). Nel caso in cui il richiedente proviene da un first country of asylum o un safe third country, l’ammissibilità della domanda deve essere valutata entro dieci giorni.

Sussiste inoltre un termine per proporre appello in caso di rigetto della domanda (varia da una settimana a un mese in funzione del tipo di procedura che ha portato alla reiezione dell’istanza) e anche per la durata dell’eventuale giudizio di secondo grado (da due a sei mesi sempre in relazione alla tipologia di procedimento che ha comportato la reiezione della domanda).

Qualora il giudizio dovesse avere ad oggetto un caso di particolare complessità vi potrebbe essere un prolungamento del termine di tre mesi.  Non vi sono specifici limiti temporali per successive impugnazioni. In ogni caso, si tratterebbe di casi eccezionali e, comunque, la decisione sulla questione dovrebbe giungere massimo entro un mese.

I termini massimi per la registrazione, il deposito e l’attuazione della procedura inerente le domande possono eccezionalmente essere estesi nel caso in cui gli Stati i membri dovessero ricevere un notevole numero di istanze.

E’ previsto l’adozione della procedura accelerata ogniqualvolta i richiedenti inseriscano dichiarazioni false o totalmente infondate o quando il richiedente provenga da un safe country of origin.

Similmente la domanda potrà essere considerata inammissibile quando il richiedente già gode di protezione internazionale in altro first country of asylum o quando la sua istanza può essere esaminata in altro safe third country.

La Commissione si cura di precisare che la  procedura impone una serie di obblighi nei confronti dei richiedenti al fine di responsabilizzarli. Al riguardo occorre ricordare che i principali obblighi del richiedente sono:

  • presentare l’istanza per la protezione internazionale nello Stato membro di primo ingresso o dove egli è presente legalmente. Tale dovere deriva dalle disposizioni contenute nella proposta di normativa che riforma il Dublin System;
  • cooperare con le autorità fornendo i dettagli necessaria alla sua identificazione ed all’esame dell’istanza;
  • acconsentire al rilevamento delle impronte digitali ed all’identificazione biometrica;
  • restare nel territorio dello Stato membro ove si è presentata la domanda rispettando tutte le obbligazioni indicate nella emendata Reception Conditions Directive.

A parere dei tecnici dell’organo esecutivo dell’Ue  la proposta in esame garantisce maggiori diritti ai richiedenti. Invero, l’istante dovrà essere pienamente informato in merito ai suoi diritti, ai suoi obblighi e alle conseguenze del mancato adempimento degli incombenti previsti dalla normativa.

Naturalmente, ove necessario, i richiedenti potranno godere dell’assistenza gratuita in tutte le fasi della procedura e avranno a disposizione un interprete che consentirà loro di comprendere appieno ogni singolo passaggio della procedura.

Per quanto attiene alla protezione dei minori la proposta regolamentazione rinforza i loro diritti sotto vari aspetti.

In ogni caso il richiedente ha il diritto di essere ascoltato in ogni particolare fase della procedura salvo particolari e ben definite eccezioni.

In riferimento al concetto di “safe country” la Commissione ritiene che la delimitazione di tale concetto costituisce un aspetto critico della procedura. Considerata la fondamentale importanza di tale definizione la proposta contiene dei chiarimenti in merito proprio a detto termine.

Sempre in riferimento alla questione delle safe countries, Bruxelles propone di procedere, progressivamente, verso l’armonizzazione delle regole in siffatto settore. Di talché è prevista la integrale sostituzione della lista delle safe countries con una lista europea, entro cinque anni dall’entrata in vigore della normativa in tema di asilo.

Secondo la proposta regolamentazione dovrebbe essere creata una EU Agency for Asylum  a supporto degli Stati membri. L’agenzia dovrebbe fornire agli Stati membri la necessaria assistenza tecnica affinché le operazioni di registrazione e i procedimenti in genere possano essere implementati nei tempi limite previsti.

Qualora le domande di asilo dovessero aumentare notevolmente, ponendo le strutture dello Stato membro in difficoltà, l’Agenzia sarebbe tenuta ad adottare tutte le misure necessarie per supportare detto Stato.

Da ultimo, la proposta si caratterizza per il fatto che è previsto un aiuto reciproco tra Stati membri nell’esecuzione delle procedure in tema di asilo.

L’attuale Direttiva 2011/95/UE del 13 dicembre 2011 recante norme sull’attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (c.d. Qualification Directive) stabilisce una base comune per il riconoscimento della protezione internazionale e attribuisce una serie di diritti per coloro che ne possono beneficiare (permesso di residenza, documenti di viaggio, accesso all’impiego e all’istruzione, social welfare e assistenza sanitaria).

La Commissione ha evidenziato una serie di criticità che caratterizzano la normativa vigente.

In primis essa non impedisce l’adozione di criteri diversi da Stato membro a Stato membro in tema di riconoscimento della protezione internazionale. Inoltre, vi sono considerevoli differenze tra i vari Stati membri in relazione alla durata del permesso di residenza così come nel riconoscimento di specifici diritti (in particolare quelli inerenti all’assistenza sanitaria). Le predette differenze contribuiscono all’aumento dei movimenti secondari.

Sotto altro profilo, l’Ue ha ritenuto necessario proporre la sostituzione della vigente direttiva con un regolamento (c.d. Qualification Regulation) poiché quest’ultimo consente un ampia armonizzazione dei criteri  per la qualifica di rifugiato e beneficiario di protezione sussidiaria. Ciò consentirà a tutti i richiedenti di avere le medesime chances di ottenere il prefato riconoscimento.

La cennata proposta normativa non impatta sulla Direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare.

La nuova normativa proposta ha ad oggetto anche la modifica delle condizioni di recepimento della  Direttiva 2013/33/UE del 26 giugno 2013 recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (c.d. Reception Conditions Directive). A sua volta, lo strumento legislativo per emendare la direttiva vigente dovrebbe essere un’altra direttiva.

L’obiettivo della riforma della Direttiva 2013/33 è assicurare che nell’intera Unione tutti i richiedenti asilo possano beneficiare delle disposizioni in tema di requisiti per l’ottenimento dello status di soggetto che necessità di protezione internazionale in ogni Stato membro nel quale si suppone essi si trovino.

Al contempo, si persegue anche l’obiettivo di scoraggiare i movimenti secondari.  Inoltre, ai fini della indicazione degli standards necessari per il recepimento ed accoglimento delle richieste, gli Stati membri dovrebbero tenere conto di quanto indicato dall’European Asylum Support Office.

Tra le novità previste dalla proposta di normativa vi è anche la possibilità per i richiedenti di poter accedere al mercato del lavoro al massimo entro sei mesi dal deposito dell’istanza. Se la domanda è ben fondata, gli Stati membri sono tenuti a consentire l’accesso al mercato del lavoro al richiedente entro massimo tre mesi dal deposito della richiesta.

Per quanto attiene  alla riforma del Regolamento (Ue) 604/2013 del 26 giugno 2013 (c.d. Regolamento di Dublino III) che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide, occorre precisare quanto segue.

Attualmente, l’Ue rileva come il regolamento di Dublino stabilisca «i criteri e i meccanismi per determinare quale Stato membro sia responsabile dell’esame di una domanda di asilo». Invero, le «sue norme mirano a consentire un accesso rapido alla procedura di asilo e a garantire che una domanda sia esaminata nel merito da un unico Stato membro», individuato con chiarezza.

Purtroppo, nota la Commissione [2]:

(i) il «sistema di Dublino non è stato tuttavia concepito al fine di assicurare una ripartizione sostenibile delle responsabilità per i richiedenti asilo in tutta l’Ue». Non a caso detto punto debole «è stato messo in rilievo dalla crisi attuale».

(ii) «Secondo il principio fondamentale dell’attuale sistema di Dublino, la responsabilità dell’esame di una domanda d’asilo incombe innanzitutto allo Stato membro che ha svolto il ruolo maggiore in relazione all’ingresso del richiedente nell’Ue. Nella maggior parte dei casi è lo Stato membro di ingresso, ma può trattarsi anche dello Stato membro che ha rilasciato il visto o il permesso di soggiorno a un cittadino di un Paese terzo che decide di rimanere nel Paese e chiedere asilo alla scadenza della sua autorizzazione. L’unità del nucleo familiare e la tutela dei minori non accompagnati sono i principali motivi di deroga a queste norme».

In pratica, osserva Bruxelles, «ciò significa che la responsabilità della stragrande maggioranza delle domande di asilo incombe su un numero ristretto di Stati membri». Si tratta di «una situazione che può mettere a dura prova le capacità di qualsiasi Stato membro. Questo sistema non è sostenibile se le tendenze migratorie attuali persistono. È per questo motivo che la Commissione presenta adesso nuove opzioni di riforma del sistema di Dublino».

Attualmente i criteri che consentono di decidere quale Stato membro debba essere responsabile di una domanda di asilo sono i seguenti:

  • principio dell’unità del nucleo familiare;
  • rilascio di permessi di soggiorno o visti;
  • ingresso o soggiorno illegali in uno Stato membro. Al riguardo si è osservato che «di tutti i criteri di Dublino, il più applicato al momento» è proprio quello relativo «all’ingresso o al soggiorno illegali in uno Stato membro»;
  • ingresso legale in uno Stato membro;
  • domanda nella zona internazionale di transito di un aeroporto.

Quanto al meccanismo di funzionamento del Dublin System allo stato, nota Bruxelles,  se si «applicano le norme di Dublino, nella maggior parte dei casi il Paese di arrivo è considerato il Paese responsabile della domanda di asilo».

Inoltre, la Commissione, ha rilevato come :

  • «la stragrande maggioranza degli arrivi» sia «registrata in un numero ristretto di Stati membri (ad esempio in Grecia e ItaliaCiò pone «i sistemi di asilo di questi Paesi di primo ingresso sotto una pressione enorme. La ripartizione delle responsabilità non è pertanto equa».
  • L’Ue abbia «norme comuni volte a garantire ai richiedenti asilo parità di trattamento in un sistema aperto ed equo, a prescindere dal luogo in cui la domanda di asilo è presentata. Secondo il sistema di Dublino, i richiedenti asilo non possono scegliere il Paese dell’Ue in cui la loro domanda sarà trattata. Tuttavia, l’esistenza di disposizioni discrezionali ai sensi della legislazione dell’Ue e il fatto che le norme non siano sempre attuate pienamente hanno fatto sì che alcuni Paesi dell’Ue presentino sistemi di accoglienza e di asilo più attraenti rispetto ad altri, e ciò spinge i richiedenti a ricercare le condizioni di asilo più vantaggiose (il c.d. asylum shopping)».
  • Alcuni migranti cerchino «di sottrarsi alla registrazione e al rilevamento delle impronte digitali per proseguire verso lo Stato in cui vogliono stabilirsi e ottenere asilo. Questi movimenti secondari creano squilibri nella ripartizione dei richiedenti asilo e mettono sotto pressione in modo sproporzionato i Paesi che rappresentano una destinazione ambita».

La riforma del Dublin system è oggetto di una proposta della Commissione europea che si ispira al c.d. Fairness mechanism.

In buona sostanza si intende implementare un nuovo sistema automatico di gestione delle domande di asilo. Esso utilizzerà un sistema centrale, un interfaccia nazionale in ogni Stato membro e un’infrastruttura di comunicazione tra il sistema centrale e l’interfaccia nazionale. Detto sistema registrerà ogni domanda di asilo presentata nell’Ue così come il numero di persone richiedenti in ogni Stato membro.

Successivamente, il sistema determinerà se effettivamente uno Stato membro è “under pressure“. Se risulterà un “disproportionate number of Asylum application” in un determinato Stato membro il Fairness mechanism sarò applicato e ogni nuova istanza di asilo verrà riallocata in altro Stato membro. Qualora lo Stato membro destinatario della riallocazione dovesse rifiutarsi, quest’ultimo dovrà versare una quota di € 250 per ogni richiedente in favore dello Stato membro che se ne farà carico.

Sul piano geopolitico appare opportuno evidenziare come la decisione dell’Ue di riformare il Common European Asylum System  trovi fondamento in varie analisi effettuate in merito al problema migratorio oramai di carattere pressoché globale.

Non a caso, recentemente, nel corso di un’intervista, Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) alla domanda «A che punto è “l’emergenza migranti”?» ha risposto sottolineando come non sia più corretto parlare di emergenza ma, piuttosto, di «fenomeno strutturale con alti e bassi». Ha continuato, poi, l’esperto affermando che «il 2015 è stato sicuramente un anno straordinario, soprattutto a causa della recrudescenza del conflitto in Siria, che ha spinto oltre un milione di rifugiati verso l’Europa. L’afflusso ha colto l’Unione europea impreparata e il trauma di quell’esperienza continua a condizionarne la percezione, in parte distorcendola. Finora il 2016 non è stato un anno straordinario dal punto di vista migratorio: dopo l’accordo con la Turchia, gli ingressi in Europa per la via balcanica si sono ridotti quasi a zero e non c’è stato il temuto travaso verso il Mediterraneo centrale per l’Italia» [3].

Egualmente, Luca Ranieri di Limes ha rilevato come il 15 giugno 2016, «nel deserto del Sahara ad Assamaka, alla frontiera fra Niger ed Algeria» siano stati ritrovati «i corpi senza vita di 34 africani di diversa provenienza, fra cui molti minorenni». Secondo «un comunicato del ministero dell’interno nigerino si sarebbe trattato di migranti abbandonati la settimana precedente dai trafficanti di uomini». Al riguardo, nota l’osservatore  «E’ l’ennesima strage di migranti in rotta verso l’Europa, la cui responsabilità viene addossata all’efferatezza di criminali senza scrupoli. Le condanne ovvie e immediate nei confronti dei trafficanti, tuttavia, rappresentano una risposta semplicistica a un fenomeno dalle articolazioni complesse. La distanza fra accusatori (governo nigerino, comunità internazionale) e accusati (trafficanti di persone) è infatti meno marcata di quanto lascino intendere il discorso mediatico e l’understatement politico.  Al contrario, l’analisi approfondita e ravvicinata dei fatti mostra come le reti del traffico di esseri umani e il governo nigerino, partner privilegiato dell’Italia e dell’Unione europea nel contrasto all’immigrazione irregolare, sussista una joint-venture di fatto basata su complicità sistematiche».

Non a caso, continua, l’autore, «la città nigerina di Agadez è considerata il cuore dei traffici del Sahara. […] Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) nel corso del 2015 da qui sarebbero passate circa 120mila persone dirette al dì là del Sahara: nigeriani, ghanesi, senegalesi, gambiani, camerunensi, congolesi, nigerini e molti altri. Un fiume di umanità che porta un fiume di denaro. La città di Agadez, isolata in una regione martoriata dalle ricorrenti crisi securitarie e ambientali, ha infatti sviluppato una dipendenza crescente dall’economia dei traffici. Secondo il responsabile delle questioni migratorie del Consiglio regionale locale “la migrazione, nella regione di Agadez, genera risorse economiche importanti, sostituendosi al business del turismo […]. Oggi i turisti per noi sono i migranti: sono ben accolti, alloggiati e accompagnati dove desiderano. Trasportatori, ristoratori, albergatori: tutti sono coinvolti”»  [4].

Egualmente, si è osservato come «il flusso dei migranti che si dirige verso le coste dell’Italia lungo la rotta del Mediterraneo centrale» abbia la «sua stazione di partenza a Khartoum, dove convergono annualmente decine di migliaia di persone provenienti soprattutto da Eritrea, Etiopia e Somalia […]. Nessuna sorpresa, dunque, che il Sudan sia stato identificato dalle politiche europee sulle migrazioni come il Paese tampone per la rotta del Mediterraneo centrale, così come il Marocco lo è su quella del Mediterraneo occidentale e la Turchia su quella del Mediterraneo orientale». Dunque, sottolinea l’autrice, «come è avvenuto negli altri casi – e in modo eclatante per la Turchia – gli accordi non sono andati troppo per il sottile nel chiedere garanzie per il rispetto dei diritti umani dei migranti, in genere, e per la protezione internazionale che spetta ai rifugiati, in particolare. Appena ricevuto, in aprile, quanto pattuito – 155 milioni di euro del fondo fiduciario europeo per la gestione dei flussi migratori – il governo sudanese si è dato un gran daffare per dimostrarsi un partner affidabile ed efficiente. Come? Organizzando retate di immigranti più o meno regolari, spesso con diritto all’asilo, nelle strade di Khartoum e in quelle delle cittadine e dei campi profughi dell’Est Sudan, e fermando centinaia di persone al confine con la Libia».

Sempre su tale questione, l’articolo continua precisando che in «maggio Human rights watch (Hrw) l’autorevole organizzazione internazionale specializzata nella denuncia delle violazioni dei diritti umani, ha dichiarato in una conferenza stampa a Nairobi che le autorità sudanesi in un mese avevano rimpatriato almeno 442 cittadini eritrei, 6 dei quali rifugiati riconosciuti e registrati, e parecchi minori. Aveva inoltre negato l’accesso ai funzionari dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati), competenti per identificare coloro che avevano diritto d’asilo. Lo stesso avevano fatto con 46 etiopici, detenuti in attesa di rimpatrio […]» [5]

Di contro, in merito al nuovo quadro di partenariato che l’Ue intende creare al fine di gestire nel modo più corretto i flussi migratori provenienti dall’esterno, il 7 giugno 2016 il primo Vicepresidente Frans Timmermans ha dichiarato «Per porre fine alle inaccettabili perdite di vite umane nel Mediterraneo e mettere ordine nei flussi migratori, dobbiamo riflettere nuovamente sul modo in cui l’Ue e gli Stati membri devono unire gli sforzi per collaborare con i Paesi terzi […]» [6].

Sulla medesima linea l’Alto rappresentante Federica Mogherini la quale ha aggiunto: «Milioni di persone si spostano nel mondo, un fenomeno che riusciremo a gestire solo agendo a livello globale e in piena collaborazione […]» [7].

Secondo l’Ue, i «partenariati rinnovati  con i Paesi terzi assumeranno la forma di “patti” su misura, sviluppati in funzione della situazione e delle necessità di ciascun Paese partner, a seconda che si tratti di un Paese di origine, di un Paese di transito o di un Paese che accoglie un gran numero di sfollati». A breve termine, spiega il comunicato stampa della Commissione l’Ue si adopererà per stipulare altri patti con il Niger, la Nigeria, il Senegal, il Mali e l’Etiopia [8].

Egualmente, il fenomeno dei migranti diviene problematico anche in funzione dei numerosi e cruenti atti terroristici compiuti in Europa negli ultimi 10 mesi.

Invero, osserva Repubblica, vi sono più controlli nei porti italiani  a causa dell’innalzamento del «livello di sicurezza anti attentati dopo gli allarmi sui foreign fighters». Non a caso «le nuove norme  prevedono che ci siano controlli più intensi anche sui passeggeri non diretti nell’area Schengen. Prima le persone fermate a campione dovevano essere tra le due e le venti ogni cento ora invece devono essere fermati tra il 25 e il 50 per cento. Si tratta di un impegno importante per chi gestisce i porti. Ammettono dalle Capitanerie». L’autore continua, poi, ricordando quanto dichiarato dal Capo della polizia italiana, Franco Gabrielli: «La decisione non è strettamente collegata a quanto sta accadendo in Libia». Il timore sussiste in quanto le navi fino ad oggi «rappresentano i passaggi meno controllati. La rotta migliore dei foreign fighters sia in andata sia in ritorno, in particolare quelli con passaporto europeo, è quella che passa dalla Grecia alla Turchia e porta fino in Siria. L’obiettivo spiega una fonte dell’intelligence è quello di estendere anche per mare il tipo di controlli aereoportuali» [9].

Similmente, l’accordo Ue – Turchia in tema di migrazione sembrerebbe sempre più esposto a possibili mutazioni considerati gli esiti del recente incontro tra il presidente turco Erdogan e il leader russo Putin.

Sul punto, poco prima del summit si è acutamente rilevato come «da consumati acrobati della politica internazionale, Vladimir Putin e Recep Erdogan preparano per oggi pomeriggio la fase più spettacolare di un salto mortale all’indietro senza precedenti recenti. Dopo sei mesi di insulti sanguinosi e minacce che hanno sfiorato più volte la dichiarazione di guerra, i presidenti di Russia e Turchia si abbracceranno a San Pietroburgo tra applausi e promesse di futuri accordi». Aggiunge, poi, il giornalista, «Sarà dura anche sul piano psicologico per due personaggi notoriamente permalosi e sempre molto attenti a simulare una certa coerenza formale. Ma sembra a entrambi una scelta inevitabile per difendersi dall’isolamento incombente, lanciare un segnale preciso a Europa e Stati Uniti e, avviare un progetto ancora più devastante che preoccupa non poco le diplomazie di Washington e dintorni: un asse tra Turchia, Russia e Iran, che ha cominciato già ieri ha delinearsi ai margini di una storica riunione avvenuta nella capitale azera Baku, e che potrebbe cambiare le sorti dell’intricatissima crisi siriana» [10].

Come noto l’incontro ha prodotto la rinnovazione dei rapporti diplomatici e commerciali tra Russia e Turchia. Di talché l’Ue si trova ancora una volta a dover gestire le relazioni con la Turchia tenendo presente le gravi difficoltà che un’eventuale annullamento dell’accordo del 18 marzo 2016 potrebbe produrre.

Ancora sulla cennata questione Paolo Galimberti, sempre del quotidiano Repubblica, ha sottolineato come esista «un’attrazione fatale tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan». Ha proseguito, poi, l’autore ricordando come i due leaders si siano frequentati con grande intensità per anni. Detto rapporto, interrotto con  la rottura del novembre scorso, sembra ora rinvigorirsi «Ma stavolta nel loro ravvicinamento, più che l’attrazione personale, gioca la congiuntura internazionale, che il presidente russo (la cui testa politica è di gran lunga più fine di quella del presidente turco) sfrutta con abilità specie dopo il golpe del 15 luglio. Sul quale, assai più prontamente delle cancellerie occidentali, si è schierato con Erdogan. Putin è a i ferri corti con l’America, con Obama e con Hillary Clinton […]. E’ sotto sanzione dalla Ue per la guerra con Kiev e l’annessione della Crimea. Ha bisogno di differenziare i suoi interlocutori e le possibili alleanze. Erdogan oggi è un alleato naturale. […]. L’articolo si chiude con il seguente quesito: «Ma durerà? Come ha detto un esperto al Financial Times: “Quante guerre tra turchi e russi ci sono state negli ultimi trecento anni? E quante ne hanno vinte i turchi?» [11]

Dunque, in conclusione, è auspicabile che la riforma del Common European Asylum System migliori celermente e concretamente la situazione dei numerosi migranti che realmente necessitano di protezione internazionale e, contestualmente, consenta anche una gestione altrettanto equa e corretta dell’altra enorme ed eterogena massa di uomini che decidono di emigrare per ragioni economiche. Solo la concreta ed effettiva realizzazione di tali obiettivi potrà contribuire a stabilizzare l’area Mediterranea e, indirettamente, anche le regioni africane pesantemente investite dal fenomeno migratorio.

 

Roberto Scavizzi

Foto © Wikicommons e Wikimedia.

 

[1] Fact Sheet della Commissione europea,  Reforming the Common European Asylum System: frequently asked Questions, Bruxelles, 13 luglio 2016.

[2] Fact Sheet, The reform of the Dublin system.  http://ec.europa.eu/dgs/home-affairs/what-we-do/policies/european-agenda-migration/background-information/docs/20160504/the_reform_of_the_dublin_system_en.pdf

[3] F. Soda e G. J. Abel, Limes 7/2016, Scenari europeo. ‘L’immigrazione è il futuro. Attrezziamoci’ Conversazioni con Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a cura di Fabrizio Maronta, pp. 65,66.

[4] L. Ranieri, Limes 7/2016, In Nigeria le guardie sono ladri e cogestiscono le migrazioni, 71 e ss.

[5] B. Saini, , Il Mastino dell’Ue ferma migranti, 12 agosto 2016 in www.nigrizia. it.

[6] Comunicato stampa Commissione europea del 7 giugno 2016.

[7] Comunicato stampa Commissione europea del 7 giugno 2016.

[8] Comunicato stampa Commissione europea del 7 giugno 2016.

[9] G. Foschini, Repubblica del 12 agosto 2016, Più controlli nei porti “Un passeggero su due”. E arrivano le code.

[10] N. Lombardozzi, Repubblica, 9 agosto 2016, Erdogan abbraccia l’ex nemico Putin ‘Occidente ingrato’.

[11] P. Galimberti, Repubblica 9 agosto 2016,, L’attrazione fatale che spaventa l’Europa].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Roberto Scavizzi
Avvocato e docente universitario a contratto presso università private. L'attività accademica ha ad oggetto la materia dell'Informatica giuridica in ambito internazionale e la materia dei diritti d'autore. Come legale opera principalmente nel settore del diritto dell'impresa e svolge attività formativa professionale nel settore giuridico in ambito pubblico e privato. Inoltre è autore di pubblicazioni di diritto e articoli giornalistici per riviste d'arte e d'attualità.