Palazzo Braschi ospita le opere della Gentileschi, in un confronto di ampio respiro con numerosi altri artisti dell’epoca. Uno in particolare influì sulla sua vita e pittura
Pugnali intrisi di sangue, teste spiccate da corpi ancora frementi nel tumulto dell’azione violenta, serpenti che prosciugano la vita da membra algide, gesti scomposti e teatralmente estremi, questo il mondo delineato dal pennello di Artemisia Gentileschi, pittrice geniale e ancor oggi incompresa. La tormentata vicenda biografica, incentrata sul processo per stupro intentato al collega Agostino Tassi, ha trasformato la sua immagine in icona del femminismo, eclissando in parte i tratti di un percorso creativo di straordinario valore.
Una mostra in corso a Palazzo Braschi cerca ora di fare chiarezza, svelando le sinergie fra l’opera della Gentileschi e quella dei suoi contemporanei. Dobbiamo a Roberto Longhi il primo tentativo di individuare i caratteri peculiari della pittrice, all’interno del grande crogiuolo del caravaggismo. Il suo stile si distingue per una spiccata aggressività, che la spinge oltre i confini di qualsiasi conservatorismo. Artemisia trascende i propri modelli, da Caravaggio a Rubens, dal padre Orazio al Baglione, per reinterpretarli alla luce di una sensibilità del tutto originale.
Il successo le arrise in vita, in maniera a dire il vero effimera, poiché l’ingiusta fama di donna dai facili costumi alla lunga corrose la sua immagine. Arduo da sconfiggere era inoltre, all’epoca, il pregiudizio nei confronti del talento femminile. Eppure dei numerosi figli di Orazio Gentileschi, pittore di grande prestigio e talento, solo Artemisia mostrò capacità affini a quelle dell’illustre genitore. Una vocazione, a detta dei contemporanei, esplosa sin dalla più tenera età.
La particolare iconografia di Artemisia si forgia nell’ambiente romano, ricchissimo di fermenti e sollecitazioni. Pur essendo difficile stabilire quali opere l’artista conoscesse effettivamente, in maniera diretta o tramite stampe e incisioni, certo è che respirò atmosfere di stimolante creatività. All’apprendistato romano appartiene ad esempio Susanna e i vecchioni, una delle sue opere più significative.
L’evento traumatico della deflorazione influì notevolmente sulla sua carriera. In primo luogo mise in luce un carattere forte e mai domo, come dimostrano gli atti del processo dal quale Tassi uscì con una condanna, in seguito mitigata, a cinque anni di esilio. Inoltre spinse il padre a combinare un matrimonio con un modesto pittore fiorentino, tale Pierantonio di Vincenzo Stiattesi, onde allontanare la figlia da Roma.
Il trasferimento forzato non diminuisce il suo talento. Firenze è all’epoca ai vertici della vita culturale, e non solo dal punto di vista pittorico. Fioriscono in particolare il teatro e la musica, alla quale Artemisia è molto legata come testimonia l’ Autoritratto come suonatrice di liuto.
Molto ampi gli orizzonti geografici nei quali la pittrice si trova a operare. Dopo il rientro a Roma si reca a Venezia, dove vive due o tre anni, un periodo ancora poco indagato dagli storici dell’arte. Dal 1630 è a Napoli, forse su invito del duca di Alcalá e viceré della città. Non trascurabile è poi l’esperienza, seppure breve, in Inghilterra, e in particolare a Londra. Un viaggio avvolto nelle brume del mistero data la scarsità di notizie al riguardo, che comunque testimonia un carattere indipendente e curioso.
L’esposizione rende giustizia all’esistenza erratica di Artemisia, mettendo di volta in volta a confronto le sue opere con gli esiti più significativi dei diversi ambienti nei quali si trova a operare. Ne risulta l’immagine di un’artista di grande levatura, insieme al quadro di un’epoca ricchissima di talenti, da quelli più noti come Giovanni Baglione o Bartolomeo Manfredi ai meno frequentati, come Jacopo Chimenti, Filippo Tarchiani, Bartolomeo Salvestrini, Felice Ficherelli e molti altri ancora.
Riccardo Cenci
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