Puigdemont, l’Europa non può guardare dall’altra parte

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Il presidente catalano chiede la mediazione internazionale. Ma per l’Ue si tratta solo di una questione interna alla Spagna. Hanno partecipato 2,2 milioni di elettori su 5,3

«L’Unione europea deve favorire una mediazione fra Madrid e Barcellona sulla crisi della Catalogna. Non può continuare a guardare dall’altra parte: questa è una questione europea, non interna»: con queste parole il presidente catalano Carles Puigdemont ha cercato in tutti i modi di trovare appoggi in tutti gli Stati membri in cui ci sono forti ambizioni autonomiste o indipendentiste, dopo l’autoproclamato referendum convocato ieri.

                            Margaritis Schinas

La risposta è arrivata stamattina (visibile sulle due piattaforme video di Eurocomunicazione, ndr) attraverso il portavoce dell’esecutivo comunitario, il greco Margaritis Schinas, che ha sottolineato come «per la Costituzione spagnola, quel voto non è legale. Per la Commissione europea si tratta di una questione interna alla Spagna, che deve essere affrontata nel quadro dell’ordine costituzionale spagnolo e in linea con i diritti umani fondamentali. Questi» – ha sottolineato – «sono tempi per l’unità e non per la divisione. Chiediamo ad entrambe le parti di muoversi velocemente da una situazione di conflitto al dialogo. La violenza non è lo strumento in politica per risolvere le questioni. Confidiamo in Mariano Rajoy per la gestione della situazione nel rispetto dei diritti umani previsti dalla Costituzione».

A voler pesantemente confermare la posizione delle istituzioni comunitarie il tweet del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk sul referendum in Catalogna: «Ho appena parlato con Mariano Rajoy. Condividendo le sue tesi costituzionali, ho rivolto un appello affinché si trovino modi per evitare un’ulteriore escalation e l’uso della forza». Dunque all’indomani del referendum sull’indipendenza, la posizione europea non cambia. Ma fu così anche dopo il referendum scozzese, mentre oggi non sono pochi gli ammiccamenti con il partito indipendentista a un anno del referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Ue.

Mariano Rajoy

Intanto il presidente catalano Puigdemont e il premier spagnolo Rajoy studiano le prossime mosse. Il primo oggi ha convocato una riunione del governo per preparare le iniziative sulla strada dell’indipendenza. Il voto è stato dichiarato illegale da Madrid che ha cercato di farlo deragliare con l’intervento della polizia. Nella capitale, intanto, il premier spagnolo Mariano Rajoy ha visto i leader di Psoe e Ciudadanos, Pedro Sanchez e Albert Rivera, i due grandi partiti spagnoli che appoggiano dall’opposizione la strategia centralista in Catalogna. Si sa che Rivera ha chiesto a Rajoy di attivare l’articolo 155 della costituzione per sospendere l’autonomia catalana prima di una possibile dichiarazione di indipendenza.

«L’Unione europea» – per il portavoce del governo spagnolo, Inigo Mendez de Vigo – «non riconoscerà un’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Catalogna, perché per l’Europa significherebbe un pasticcio di enormi proporzioni». Ribadendo come una simile dichiarazione «non avrebbe nessun effetto politico né giuridico». Al referendum sull’indipendenza catalano il “” avrebbe ottenuto il 90% dei voti, secondo i dati resi pubblici dal portavoce del governo catalano Jordi Turull. La partecipazione si è fermata a 2,2 milioni di elettori, sui 5,3 chiamati alle urne, ma secondo Turull avrebbe potuto raggiungere «almeno il 55% in condizioni diverse», cioè senza l’intervento nei seggi della polizia spagnola. Il “no” all’indipendenza avrebbe ottenuto solo il 7,8%.

Un plebiscito, dunque, per gli organizzatori, fermato da un’ondata di violenza a senso unico che ha sconvolto diverse persone nel resto d’Europa, nel giorno che doveva essere – sempre secondo le intenzioni dichiarate dal governo di Barcellona – quello di una “gioiosa” celebrazione elettorale. Si è trattato, invece, di una vera e propria giornata da incubo, con centinaia di feriti, che ha fatto risprofondare la Spagna al periodo predemocratico. La polizia spagnola è intervenuta con la forza in centinaia di seggi elettorali per impedire lo svolgimento del voto. Ma la mossa di Madrid non lo ha fermato. E qui ognuno può schierarsi sul perché e sul chi abbia vinto, anche se la sensazione è che nella penisola iberica i guai siano solo iniziati.

Nei prossimi giorni il governo catalano trasmetterà i risultati al Parlamento locale che, nelgiro di 48 ore, potrebbe proclamare l’indipendenza secondo la Legge sul Referendum approvata in agosto, ma sospesa dalla Corte costituzionale spagnola. Da qui l’appello lanciato all’Europa perché cessi d’ignorare la crisi catalana e «le violazioni dei diritti umani» (parole di Puigdemont) di cui si è resa responsabile la Spagna. Malgrado la polizia nazionale abbia sequestrato molte urne e tagliato i collegamenti internet, la maggior parte degli oltre seimila seggi dove ieri erano chiamati al voto 5,3 milioni di catalani ha aperto comunque. E migliaia di persone hanno fatto la coda tutto il giorno manifestando e non indietreggiando nemmeno dove sono avvenute le cariche degli agenti anti-sommossa.

L’uso di manganelli, pallottole di gomma e lacrimogeni, ha provocato più di 844 feriti. Alcuni, secondo il governo catalano, gravi. Le immagini della violenza degli agenti centralisti, dei volti insanguinati dei civili, di anziani colpiti, hanno fatto il giro del mondo provocando incredulità e condanne. La violenza della reazione spagnola ha sorpreso perfino i dirigenti catalani, impegnati da mesi in un durissimo braccio di ferro con Madrid. «È una vergogna che accompagnerà per sempre l’immagine dello Stato spagnolo» ha tuonato Puigdemont, «dai tempi del franchismo non si vedeva una tale violenza di Stato» ha accusato Turull, minacciando di portare Madrid «davanti ai tribunali internazionali», «oggi la Spagna ha perso la Catalogna» ha sentenziato l’ex presidente Artur Mas.

Madrid ha definito invece “esemplare” l’operato della polizia. «Hanno agito in forma professionale e proporzionale», ha dichiarato la vicepremier Soraya de Santamaria, «non c’è stato alcun referendum» ha seccamente negato nella serata di ieri, in diretta tv, il premier Mariano Rajoy, «la maggioranza dei catalani non ha partecipato» e quella che si è consumata oggi è stata «una sceneggiata». Pensare che la giornata era iniziata in una calma relativa. Migliaia di cittadini avevano passato la notte nei seggi per evitare fossero chiusi dalla polizia. La polizia catalana dei Mossos d’Esquadra è passata nei seggi, ha steso verbali ma non ha cercato di chiuderli con la forza, come ordinava la procura spagnola.

Alle 9 sono entrati in azione i diecimila agenti spagnoli inviati in Catalogna nelle ultime settimane, in tenuta anti-sommossa. Uno dei primi seggi presi d’assalto è stato quello di San Julia de Rumi, a Girona, dove doveva votare Puigdemont. Decine di agenti della Guardia Civil lo hanno attaccato sfondando la porta e piombando all’interno in cerca delle urne. La stessa scena si è ripetuta in altri 319 seggi. La popolazione ha reagito pacificamente con forme di resistenza passiva. Ci sono stati anche momenti di grande tensione fra agenti spagnoli e i Mossos catalani, che hanno cercato di fare da scudo alla popolazione. A Barcellona la Guardia Civil ha anche manganellato diversi pompieri catalani che si erano schierati a difesa di un seggio. Un dialogo politico fra Madrid e Barcellona al momento è molto difficile. Già per domani è stato convocato in Catalogna uno sciopero generale per denunciare “la repressione” spagnola.

Fra i pochi a parlare, nel Parlamento europeo che stamattina apriva i lavori per la plenaria di Strasburgo, il leader dei Socialisti e democratici Gianni Pittella e quello dei liberali dell’Alde Guy Verhofstadt. La guida del Ppe, Manfred Weber, ha preferito tacere, così come hanno fatto quasi tutti i premier della stessa casa politica che governano in Europa, forse anche per vedere quale sarà la posizione di Rajoy nelle prossime ore, al quale Podemos chiede le dimissioni. Pittella, pur rimarcando il carattere di illegalità del “non-referendum”, ha definito quello di ieri un «giorno triste per la Spagna e per l’intera Europa», attaccando frontalmente Rajoy, accusato di «non aver fatto niente per evitare» le violenze. Verhofstadt, dal canto suo, ha invitato ad «una soluzione negoziata nella quale siano coinvolte tutte le parti politiche, inclusa l’opposizione al Parlamento catalano».

La prima ad insorgere davanti alle violenze è stata la premier scozzese Nicola Sturgeon, che ha parlato di scene «alquanto scioccanti e sicuramente non necessarie». Anche il premier belga Charles Michel ha usato parole di condanna, chiedendo il dialogo tra le parti. A lui si è associato lo sloveno Miro Cerar, che ha rivolto un appello a trovare «soluzioni pacifiche». «Le ferite sono profonde», ha osservato il ministro degli Esteri lituano Linas Linkevicius, ma ora «il dialogo con la propria gente è un dovere per la Spagna». In Italia condanna pressoché unanime alla violenza, ma sul destino della Catalogna indipendente nessuna unità. Gli unici a schierarsi totalmente dalla parte di Barcellona sono stati, ovviamente, gli indipendentisti del Belpaese: Sudtiroler Freiheit, partito della destra separatista dell’Alto Adige, il Movimento Autonomista Union Valdotaine Progressiste in Valle d’Aosta, il Partito Sardo d’Azione (presente in Catalogna come osservatore internazionale accreditato nell’ambito della delegazione dell’Efa, European Free Alliance), oltre alla Lega Nord.

 

Keiko Jiménez

Foto © The Guardian (apertura), European Union, The Indipendent, BBC

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