Quando Malattia & Potere vanno in cortocircuito

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Il mistero sulla salute del leader uzbeko Islam Karimov conferma una vecchia consuetudine dello spazio ex sovietico: dei malanni del leader non se ne deve parlare

Una guerra di notizie si è scatenata intorno alla sorte di Islam Karimov (nella foto con Vladimir Putin), autocrate e padre della patria in Uzbekistan: colpito da ictus cerebrale ad inizio settimana, il presidente uzbeko è stato prima dato per morto, poi “resuscitato”, poi in fin di vita, poi stabile, poi trasferito in una clinica russa e sottoposto a cure specifiche… Insomma, il solito rituale che si ripete ogni volta che un uomo solo (e forte) al comando si ammala ed è costretto a lasciare il Potere senza essersi assicurato una degna successione politica. Del resto all’interno delle varie intelligence mondiali esistono dipartimenti incaricati di monitorare costantemente la salute dei massimi leader mondiali, amici e (soprattutto) nemici che essi siano. Perché spesso il deteriorarsi delle condizioni fisiche di un Capo di Stato, specie se garante di stabilità in un paese soggetto a tensioni politiche o etniche, o a rivendicazioni separatiste, può sconvolgere gli equilibri geopolitici di un’intera area mondiale con esiti del tutto imprevedibili. E Karimov, che dalla fine dell’Urss governa con pugno dispotico una nazione che si affaccia sulla polveriera afghana ed è considerata a rischio di infiltrazioni jihadiste e di tensioni etniche con i suoi vicini, è uno di questi.

Tito_in_the_Oval_Office,_7_March_1978In verità, le guerre mediatiche sui malanni dei leader politici sono state combattute già nel Novecento. Di esempi ce ne sono a bizzeffe: dal settantatreenne Mao, che in piena Rivoluzione Culturale si fece riprendere mentre nuotava nel fiume Yang-tse per smentire le voci di una sua infermità diffuse dai suoi nemici interni, al quasi novantenne Tito (nella foto durante la sua ultima visita negli Usa, nel 1978), vittima di un vero e proprio accanimento terapeutico da parte dei suoi medici personali, che alla fine degli anni Settanta cercarono in tutti i modi di prolungarne l’esistenza (o meglio, l’agonia), quasi presagissero ciò che sarebbe accaduto in Jugoslavia una volta morto l’uomo-simbolo di un Paese, la cui struttura politica già allora evidenziava inquietanti crepe. La scomparsa del presidente jugoslavo, avvenuta il 4 maggio 1980, del resto sancì un dato di fatto ormai non più occultabile: il comunismo in Europa Orientale era entrato in una fase di vecchiaia.

Le leadership ad est di Belgrado, inclusa quella sovietica, erano ormai tutte costituite da dirigenti settantenni, che, ubriachi di potere, non erano stati capaci di allevare eredi in grado di gestire, in un futuro ormai prossimo, le loro eredità politiche. Ecco perché forse è un errore dire che la Guerra Fredda è finita con la sconfitta del comunismo: sarebbe più corretto affermare che l’ideologia comunista, almeno come era intesa nello spazio ex sovietico, non è stata in grado di riprodursi e si è semplicemente estinta, assieme ai dinosauri politici che ne erano i massimi portatori: Leonid Brežnev, Jurij Andropov, Konstantin Černenko. Percorrendo i viali della necropoli del Cremlino a Mosca, dove sono sepolti i leader sovietici, si può capire perché, all’inizio degli anni Ottanta, l’attenzione delle intelligence occidentali venne rivolta in modo particolare alle condizioni di salute di questi uomini: sulle lapidi delle loro tombe le date di nascita oscillano tra il 1902 e il 1912, le date di morte tra il 1982 e il 1984.

BrezhnevBrežnev già alla fine degli anni Settanta aveva evidenti difficoltà di movimento, appariva gonfio e accasciato, e manifestava anche problemi uditivi testimoniati da un apparecchio acustico che in alcune immagini è visibile dietro all’orecchio: i verbali del IV Dipartimento del Ministero della Salute dell’Urss, la struttura interna al Cremlino che aveva il compito di monitorare le condizioni fisiche dei leader sovietici, parlano di un Brežnev che trascorse i suoi ultimi anni soggetto a crisi cardiache e dipendente dai farmaci, che spesso gli venivano somministrati per consentirgli di partecipare a vertici internazionali oppure a cerimonie pubbliche, dove una sua assenza avrebbe generato troppi sospetti. Come avvenne il 7 novembre 1982, in occasione dell’annuale parata commemorativa della Rivoluzione d’Ottobre, quando per rispondere alle insistenti voci rilanciate dagli Usa che lo davano in fin di vita, il leader sovietico, imbottito di medicine, venne “fatto apparire” sul Mausoleo di Lenin per smentire ancora una volta “la propaganda americana”.

Leonid Brežnev morì tre giorni dopo, in un certo senso vittima anche di un accanimento medico disposto, in nome della ragion di Stato, pare proprio dal suo successore Andropov, allora capo del Kgb, il quale era evidentemente al corrente dei rischi di destabilizzazione a cui sarebbe stata soggetta l’Urss se la notizia delle pessime condizioni di salute del Segretario Generale del Partito fossero divenute di pubblico dominio. Un modus operandi perpetuato anche negli anni immediatamente successivi, quando le assenze dalla scena politica dello stesso Andropov, per via delle continue dialisi renali a cui doveva sottoporsi, venivano attribuite dalla propaganda sovietica a “raffreddori”, e quando le degenze ospedaliere del suo successore Černenko, affetto da una grave forma di enfisema polmonare cronico già al momento della sua nomina, erano intervallate da penose apparizioni pubbliche per smentire le frequenti voci sulla sua morte che si diffondevano in Occidente.

Boris_Yeltsin_13_September_1999Una logica alla quale non sfuggì nemmeno Boris Eltsin, primo presidente della Russia post-sovietica, la cui patologia cardiaca, negata per anni, divenne palese alla vigilia delle incerte Presidenziali 1996, mettendone a rischio la rielezione. Pur di scongiurare il rischio di perdere i loro privilegi, gli oligarchi che allora prosperavano all’ombra del Cremlino non solo imposero un rinvio dei tempi dell’intervento a dopo le elezioni, ma spinsero il presidente a mostrarsi in pubblico in buone condizioni: una messinscena culminata con il suo esilarante “balletto” (video in basso) sul palco dove avrebbe dovuto tenere il comizio finale della sua campagna elettorale.

E neppure Vladimir Putin, che pure è solito ostentare la sua ottima forma fisica facendosi fotografare a torso nudo, o in versione judoka, hockeista, o sportivo in genere, è stato risparmiato dalle voci che lo davano per gravemente malato. Nell’autunno 2012 la sua andatura claudicante apparsa evidente durante alcune uscite pubbliche, l’annullamento di alcuni viaggi di Stato all’estero e il fatto che per l’intero mese di ottobre avesse tenuto i suoi incontri politici nella sua dacia fuori Mosca avevano dato adito a supposizioni riguardanti un malanno misterioso che aveva colpito il leader russo. Poi la parziale ammissione del fido portavoce Dmitrj Peskov (“stiramento muscolare”) aveva lasciato trasparire un’altra versione, rilanciata da alcuni giornali ma non confermata dal Cremlino: dopo essersi cimentato in un volo in deltaplano, Putin aveva cominciato a soffrire di forti mal di schiena dovuti a una vecchia ferita, tanto da spingere i suoi medici a imporgli un periodo di riposo, a proibirgli spostamenti in aereo, e a limitare i suoi trasferimenti dalla sua dacia di Novo Ogarëvo alla Piazza Rossa.

Alessandro Ronga
Foto © Wikicommons

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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