Ieri sera red carpet per circa 600 vip: da Versailles a Gucci, al Metropolitan Museum of Art è andata in scena la cosiddetta «moda esagerata»
Si è svolto stanotte uno dei Gala più importanti al mondo, un concentrato di glamour e celebrità, almeno per gli amanti della moda. Una serata che si svolge ogni anno il primo lunedi di maggio: si tratta del Gala del Metropolitan Museum of Art of New York. Nasce nel 1948 per idea della giornalista di moda Eleonor Lambert, organizzato dalla direttrice di Vogue Us Anna Wintour per raccogliere fondi a favore del Costume Institute del Metropolitan Museum of art di New York, la collezione permanente del museo che ospita oltre 33 mila vestiti e accessori di moda dal 1400 a oggi provenienti da tutto il mondo. Negli anni ‘70 viene trasformato da Diana Vreeland in un appuntamento imperdibile: una serata di beneficenza a cui parteciperanno personaggi famosi dello spettacolo, del cinema e della musica. Nei fatti è l’appuntamento più esclusivo e paparazzato delle notti newyorchesi, una specie di ballo in maschera con cena
Si partecipa su invito pagando 35 mila dollari a testa, un tavolo arriva a esser valutato dai 200 ai 300 mila dollari e tutto il ricavato viene donato al Costum Institute del Met, in occasione dell’apertura dell’annuale mostra di moda che viene dedicata a una figura, un evento, una tendenza, la religione, il punk, gli omaggi a tanti artisti. Il tema del 2019 è stato “Camp: note sulla moda“. Camp è un termine che è stato coniato da Susan Sontag nel 1964, nel saggio “Notes on Camp”, erudita disquisizione della filosofa femminista americana: «si percepisce l’essere camp di oggetti e persone nel momento in cui interpretano un ruolo». Si può tradurre in “ognuno è libero di essere se stesso“. Eccessi, stravaganze, particolarità, kitsch, tutto è ben accetto. Niente di più vicino allo spirito del Met Gala, che quest’anno è stato sotto la direzione artistica del direttore creativo di Gucci Alessandro Michele e con la partecipazione di Harry Styles (la pop star che fluttua tra i generi, musa di Michele), Kate Perry (nell’immagine a sinistra) e il premio Oscar Lady Gaga (nella foto di apertura).
In un video postato su Instagram da Metropolitan si legge: «Cos’è il Camp? Camp è una donna che cammina avvolta in un abito fatto con tre milioni di piume; è il rifiuto di crescere, è generosità, è felicità, è un punto di domanda che non permette a nessuno di trasformarlo in un punto esclamativo. Venite alla mostra e decidetelo voi cos’è Camp per voi». Andrew Bolton, curatore del Costume Institute dichiara: «Il Camp è una reazione a qualcosa, che può essere nella musica, nella moda, nella società o nella politica». Il red Carpet non si è risparmiato: una parata di star in abiti stravaganti. Dunque la celebrazione della fluidità dei generi in un’epoca in cui ancora c’è chi associa la diversità alla perversione. Tra i 600 eletti, anche Serena Williams (Anne Wintour, direttrice di Vogue, è un’appassionata di tennis, ndr). I comuni mortali hanno potuto seguire le finestre sulla serata con le dirette streaming sugli account social di Vogue e il rito del Red Carpet sul canale tv “E!”.
La grande mostra del Constume Institute del Metropolitan “Camp: Notes on Fashion” aprirà al pubblico per tre mesi il prossimo 9 maggio, dopo essere stata preceduta dal grande gala di ieri sera, un red carpet diventato negli anni significativo quanto la serata degli Oscar. “Camp” proviene dal francese “se camper“, atteggiarsi, e fu usata per la prima volta nel 1671 in una commedia di Moliere. «È troppo di tutto, troppe paillettes, troppe rouche, troppe piume. È la sovversione dello status quo, ma anche generosità, munificenza», spiega il curatore Andrew Bolton, mentre per il direttore creativo di Gucci Alessandro Michele, quelle quattro lettere «ci insegnano nella loro banalità quanto sia importante sentirsi liberi di esprimersi attraverso il modo di vestire». Con Gucci principale sponsor della mostra e del gala assieme a Conde Nast, la scenografia teatrale rosa confetto firmata da Jan Versweyveld, (“Lazarus” con David Bowie e “Uno sguardo dal ponte” a Broadway) comincia in modo claustrofobico per allargarsi via via che il “camp” esce dalla clandestinità.
«Da quando Andrew ha cominciato a lavorare sulla mostra, mi sono accorto che “Camp” è ovunque. Anche il Met in certe sue parti è “camp”», ha commentato il direttore del museo Max Hollein. “Over the Rainbow” cantato da una Judy Garland sedicenne e poi matura, poco prima di morire, accompagna nella visita. Si comincia con il “Camp dell’Eden”, la Versailles dei re di Francia, accostata alla pantacalza con la foglia di fico di Vivienne Westwood, per passare a Oscar Wilde, a cui la Sontag aveva dedicato il saggio. Gli input sono di tutti i tipi: da Beau Brummel e le sottoculture britanniche del dandy e dei queer all’inizi del Novecento a esempi più recenti firmati Armani, Balenciaga, Dior, McQueen, Galliano, Gaultier, Bob Mackie, Elsa Schiaparelli, Scott, Viktor and Rolf, Anna Sui, Versace.
«Trump è un personaggio camp», ha detto Bolton al New York Times, in linea con l’analisi di Vanessa Friedman, la fashion editor del quotidiano. Nei magazzini del Met ci sono oltre 33 mila tra abiti e accessori: cinque continenti e sette secoli di moda. I 250 in mostra per Camp, come il “bouquet dress” e l’abito di piume di struzzo con le farfalle per la primavera estate 2018 di Jeremy Scott per Moschino – «Il re del camp», secondo Bolton – sono inindossabili per il visitatore medio. Che non significa che la mostra non possa influenzare le passerelle del futuro come è accaduto per altre due grandi iniziative del Costume Institute: “China. Through the Looking Glass” e “Manus x Machina. Fashion in an Age of Technology”.
Ginevra Larosa
Foto © Vogue, Metro, Time