Cambia il vento politico nella piccola Islanda?

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Il presidente Guðni Thorlacius Jóhannesson ha conferito l’incarico a formare l’esecutivo a Katrín Jakobsdóttir, leader dei Verdi e a capo dei tre partiti di centrosinistra

La speranza delle forze di centrosinistra in Europa, bastonate in tutte le ultime elezioni del Vecchio Continente, può rinascere nella sperduta Islanda: nonostante il centrodestra sia fortemente rimasto il primo partito, il presidente Guðni Thorlacius Jóhannesson ha conferito alla leader 41enne dei Verdi (di sinistra), madre di 3 figli, Katrín Jakobsdóttir l’incarico di formare un governo, unica soluzione per ottenere una maggioranza parlamentare, anche se risicatissima, visto il risultato delle ultime elezioni tenutesi a fine ottobre.

La Jakobsdóttir sta negoziando con il resto dei partiti che farebbero parte della coalizione, il Partito dei Pirati, l’Alleanza Democratica e il Partito Progressista. Insieme ai Verdi i quattro partiti, che nella precedente legislatura erano all’opposizione, hanno ottenuto insieme 32 seggi nel nuovo Parlamento su un totale di 63, dunque un solo seggio in più (minimo previsto) di maggioranza. Una sfida non impossibile per un Paese come l’Islanda, dove il presidente Jóhannesson era stato eletto lo scorso anno senza l’appoggio di nessun partito con un gradimento del 97%, anche grazie alla decisione di dare in beneficienza il 10% della sua retribuzione.

Al centro del dibattito c’è anche la questione della possibile adesione all’Unione europea, una novità per l’isola paventata solo in passato nei periodi di crisi. L’Islanda rischia di diventare il Paese del See, Spazio economico europeo, che seguirà il percorso inverso del Regno Unito, in seguito alla Brexit. E a quel punto, lasciar solamente i sudditi di Sua Maestà, insieme a Norvegia e Liechtenstein (la Svizzera non fa parte del See, ma solo dell’EFTA, European Free Trade Association).

Istituito nel 1994 allo scopo di estendere le disposizioni applicate dall’Unione europea al proprio mercato interno ai membri dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA), già l’anno successivo il See fu depotenziato con l’adesione all’Ue di Austria, Finlandia e Svezia. I Paesi membri includono le quattro libertà del mercato interno (libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali) e le relative politiche (concorrenza, trasporti, energia nonché cooperazione economica e monetaria).

Nel giugno 2009, anche l’Islanda si era candidata ad aderire all’Unione europea – come suddetto quale via d’uscita dalla crisi finanziaria globale del 2008 – e il Consiglio europeo aveva anche accettato la candidatura il 17 giugno 2010, con i negoziati che erano partiti nel giugno 2011. Tuttavia, a seguito delle elezioni parlamentari dell’aprile 2013, la nuova coalizione di centrodestra, formata dal Partito dell’indipendenza e dal Partito progressista, ha interrotto i negoziati subito dopo il suo insediamento nel maggio 2013.

Katrín Jakobsdóttir

Successivamente, nel marzo 2015, il governo di coalizione comunicò, in una lettera al Consiglio dell’Unione europea, che l’Islanda non doveva essere considerato come Paese in procinto di aderire all’Ue, sebbene il governo non abbia mai formalizzato ufficialmente il ritiro della candidatura. Ma di conseguenza alla presa d’atto della lettera, il Consiglio europeo e la Commissione non hanno più considerato l’Islanda come Paese candidato. Ora il dibattito sembra ripartire nell’isola, e il fatto che ciò avvenga in un periodo di crescita economica fa ben sperare.

Non è un caso che quello guidato dalla leader dei Verdi sarebbe il secondo governo di sinistra dall’indipendenza dalla Danimarca (nel 1944), dopo quello della stagione 2009-13, quello più filo-comunitario della sua storia. Ma è un dato di fatto che il Paese esce dalle urne con un parlamento molto frammentato, con l’unico partito politico compatto, quello conservatore, che conserva la maggioranza relativa pur rimanendo all’opposizione, perché incapace ad avere alleanze e senza i numeri per governare da solo.

Una stabilità che al Paese manca molto ultimamente, basti pensare che le ultime elezioni sono state le terze in quattro anni. Sono entrate nell’emiciclo della capitale Reykjavik (Althing, dove vi sono 63 scranni) per la prima volta – malgrado lo sbarramento al 5% – ben otto partiti. La coalizione di governo uscente ha perso nel complesso 12 seggi, sei solo il liberal-conservatore Partito dell’Indipendenza, appannato da scandali, guidato dal 47enne premier uscente Bjarni Benediktsson. Due formazioni nuove sono entrate per la prima volta nell’Althing: il Partito di Centro (11%) e il populista Partito Popolare (7%).

Con mille problemi politici, la piccola Islanda va fortissimo invece nello sport più seguito, il calcio. L’isola dopo la simpatica partecipazione agli ultimi campionati europei ha ora conquistato i campionati del mondo che si terranno in Russia nel 2018. Un grande orgoglio per una popolazione (334.252 registrati) grande poco più della cittadina italiana di Bari. Si tratta di un primato, strappandolo a Trinidad&Tobago che giocò in Germania nel mondiale 2006, quello vinto dagli azzurri di Marcello Lippi, di rappresentare il Paese meno popolato di sempre in un mondiale di calcio.

Il segreto del boom calcistico dell’Islanda potrebbe dipendere dalla campagna che da 15 anni è in vigore nel Paese, un programma anti-alcool e droghe basato sulla pratica sportiva e in particolare proprio sul calcio, con la costruzione di campi, molti dei quali indoor e riscaldati. Una scelta condivisibile per uno Stato, fra i pochi al mondo (un altro famoso, conosciuto in Italia ai più sempre perché legato ai mondiali di calcio, è quello del Costarica) a non avere neppure un esercito, che nella speciale classifica elaborato annualmente dal Sustainable Development Solutions Network (Sdsn) – iniziativa che opera su commissione delle Nazioni Unite su 155 Paesi – risulta 2° dopo la Norvegia nelRapporto sulla felicità nel mondo 2017” (Italia 48a).

 

Rakel Daníelsdóttir

Foto © Iceland Mag

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