I rischi di viaggi interstellari troppo prolungati nello spazio

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Da Keplero 452 b alla ricerca di altri pianeti gemelli della Terra. Che ci piaccia o no saremo sempre legati all’attuale globo e al suo sistema solare

Quattro anni fa i media di tutto il mondo annunciarono che era stato scoperto un pianeta gemello della Terra, questa deduzione nasceva dal fatto che è nella cosiddetta dagli astronomi zona abitabile, inoltre è proprio alla giusta distanza dalla stella madre, permettendo l’acqua sempre che ci sia, allo stato liquido, e questo elemento, come è noto, è il primo ingrediente per cercare la vita.

Insomma questo pianeta risponderebbe a tutte le nostre domande in fatto di possibile esistenza extra terrestre, immaginando già di poter fare le valige e trasferirsi sul nuovo pianeta magari con la pensione maturata sulla Terra. Peccato che questo nostro gemello a cui è stato dato il nome di Keplero 452 b sia nella costellazione del Cigno e dista da noi appena 1.450 anni luce, sapendo che un anno luce corrisponde a circa 9.461 miliardi di chilometri o circa 63.241 volte la distanza fra la Terra e il Sole. A questo punto sorge spontanea una domanda; sapere di questo pianeta, ma per fare cosa?

Questa domanda per molti può essere irritante, ma ciò non toglie cosa mai può interessare sapere che c’è un pianeta che assomiglia alla Terra a una distanza che non potremo mai percorrere? Qualcuno parla, o meglio straparla, di trasmigrare già su Keplero quando la Terra non avrà più le condizioni di vivibilità, altri scrivono di un prossimo incontro con civiltà extraterrestre e così via parole in libertà, senza alcuna possibilità di un progetto concreto. Ma la mia critica non è solo su problemi di distanza o di future improbabili colonie umane su Keplero, quanto un argomento spesso sottaciuto per non svegliarci da un bel sogno: il nostro organismo non è adatto a superare le colonne d’Ercole del cielo; le famose fasce di Van Allen.

Il nostro corpo non è stato creato per lo spazio, afferma Filippo Ongaro, direttore scientifico dell’Istituto di medicina rigenerativa Ismerian e medico degli astronauti nella Missione Marco Polo con Roberto Vittori: «Stare in orbita sei mesi equivale a un invecchiamento di dieci anni sulla Terra», anche se quando tornano dallo spazio gli astronauti non sembrano affatto invecchiati, ma quando si parla dell’invecchiamento precoce non è visibile esteriormente, ma riguarda il funzionamento interno del corpo.

L’assenza di gravità, per fare un esempio, danneggia gravemente il fisico dell’uomo agendo come un acceleratore dell’invecchiamento, scatenando in molti casi più o meno gravi come l’osteoporosi, perdita di massa ossea e muscolare, problemi cardiaci, per arrivare al diabete o alla cecità. Questi ultimi sono più a rischio dopo una missione spaziale perché è stato dimostrato che la permanenza in orbita provoca danni all’andamento delle arterie che regolano l’afflusso di sangue al cervello, danneggiando la vista.

Lo stesso rischio riguarda le ossa e i muscoli, spiega ancora Ongaro: «L’effetto è come se bloccassimo qualcuno a letto per mesi». Tutto questo perché il nostro cervello, davanti all’assenza di gravità, “pensa” che i muscoli e le ossa non servano più a sostenere il corpo, a causa dell’assenza di peso, con il risultato di una perdita di tessuto osseo e muscolare come capita molte volte agli astronauti che tornati sulla Terra, hanno mostrato problemi a tenersi in equilibrio o addirittura nel prendere in mano gli oggetti.

Inoltre, le condizioni di stress prolungato nello spazio possono compromettere il sistema immunitario con quello che questo significa per chi è esposto alle radiazioni esponendoli a una maggiore insorgenza di tumori. Insomma, prima di dire andiamo a colonizzare l’universo pensiamo al prezzo da pagare che non è poco e ripeto la mia domanda, ma cosa ci andiamo a fare nello spazio?

 

Matteo Vinci

Foto © Science News, Wired, VoxNews, Twitter

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