Cimarosa compositore europeo e cosmopolita

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“L’impresario in angustie” presentato al Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, in una rilettura dal taglio moderno

Girò l’Europa in lungo e in largo Domenico Cimarosa, come del resto fece lo stesso Mozart, due compositori per alcuni versi affini, le cui reciproche tangenze appaiono destinate a rimanere incerte e nebbiose. L’impresario in angustie nasce proprio alla vigilia del trasferimento di Cimarosa in Russia, piuttosto breve a causa del carattere capriccioso e umorale della zarina Caterina, prima del successo più limpido ottenuto dal musicista di Aversa con Il matrimonio segreto, creato per la corte viennese.

Merito del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano aver riproposto questa spassosa farsa in un atto, su libretto di Giuseppe Maria Diodati, opera di un musicista considerato ingiustamente autore di una sola opera, Il matrimonio segreto appunto, in realtà estremamente fecondo e ancora in attesa di una vera riscoperta.

Già Goethe aveva apprezzato sommamente la farsa, alla quale aveva assistito durante il suo soggiorno romano. E non è un caso che la cittadina toscana ospiti contemporaneamente una mostra sull’estetica del Grand tour (Museo Civico, Pinacoteca Crociani, fino al 7 ottobre 2018), quando la Penisola era meta imprescindibile per ogni artista, o semplicemente per coloro i quali volessero completare la propria formazione. Conviene inoltre notare come il grande poeta tedesco ammirasse in particolare la vitalità del teatro italiano, la vicinanza fra gli artisti e il pubblico, la naturalezza e il brio riscontrabili nelle rappresentazioni.

Lavorando su un adattamento drammaturgico dell’Impresario, la regista Caterina Panti Liberovici si affida più alla parola recitata che non alla musica. A tal fine introduce un personaggio di sua invenzione, un regista appunto, il quale ha il compito si svelare ulteriormente i meccanismi meta-teatrali del libretto. Cristian Maria Giammarini ne ricopre il ruolo, con enfasi forse eccessiva e punte di isterismo piuttosto esagerate.

La parodia dell’ambiente melodrammatico dell’epoca, ostaggio dei capricci delle primedonne, ospizio di poetastri senza talento e di impresari truffaldini, si trasforma in una riflessione a tutto tondo sul mondo del teatro, con numerosi agganci alla realtà attuale e citazioni da Rostand e Strehler. Ne risulta un Cimarosa sin troppo intellettualistico, più tedesco che italiano potremmo dire.  La tinta dominante è quella scura, distante dalla levità del dettato originario. Nel complesso si ride poco; e pensare che lo stesso Goethe aveva tratto dallo spettacolo un’ilarità senza fine.

Di indubbia suggestione alcune scene, come l’emergere dei personaggi dall’oscurità, maschere teatrali dimenticate e animate da una fragile esistenza; o ancora l’arrampicarsi dei cantanti su scale che non additano alcuna meta. Uno spettacolo che va contestualizzato nel grande laboratorio del Festival, fucina di rivisitazioni ed esperimenti anche audaci, comunque sempre in grado di stimolare lo spettatore. E comunque la confezione, i costumi di Alessandra Garanzini e le scene di Sergio Mariotti, appare nel complesso pregevole.

Purtroppo a volte le esigenze della musica vengono sacrificate, come quando l’irruzione di un attore  portavoce di richieste sindacali interrompe il magistrale quintetto, vetta della partitura, a stigmatizzare i vizi di un ambiente ormai distorto, mentre i cantanti approfittano della pausa inaspettata per parlare al telefonino. Una cesura certo dettata dai tempi dilatati dello spettacolo, molto più ampi rispetto all’originale, che spezza la continuità drammaturgica. Fatto sta che tutto il piacere estetico sfuma in un intervallo non previsto dal compositore.

Alla fine la povera Fiordispina resta sola, inghiottita dal buio della scena, implorando il calare del sipario con voce angosciata. Una conclusione dal carattere più espressionista che settecentesco. L’impresario è fuggito, tutto sembra sgretolarsi ineluttabilmente. Il fallimento, dagli echi pirandelliani, non potrebbe essere più bruciante.

Magistrale come al solito Roland Böer nel dirigere con varietà d’accenti la giovane Orchestra Poliziana, capace anche di inserirsi nello spettacolo con una battuta spiritosa consegnatagli dal testo.

Compatto e affiatato il cast, composto da giovanissimi. Molto brave in particolare Dioklea Hoxha (Fiordispina), e Silvia Alice Gianolla (Merlina), ammirevoli per fluidità e naturalezza espressiva. Convincente anche la prova di Vittoria Licostini (Doralba). Ottimo il tenore Claudio Zazzaro, apprezzabile il baritono Francesco Samuele Venuti, anche se non molto spigliato sulla scena. Chi ha verve e simpatia da vendere è Claudio Mugnaini (l’impresario), il quale risulta invece piuttosto fragile dal punto di vista vocale. Bravo infine Stefano Bernardini nel ruolo, più recitato che cantato, di Strabinio.

Oksana Tumanova

Immagini © Irene Trancossi

 

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Oksana Tumanova
Oksana Tumanova. Nata nell’ex Unione Sovietica, ha vissuto in prima persona il disintegrarsi delle utopie socialiste. Da allora l’interesse per le complesse dinamiche dell’est Europa la spinge ad impegnarsi in prima persona, scrivendo di questi argomenti in particolar modo sul web.

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