Così i neologismi ci raccontano i popoli. Anche Ferragnez e Billary

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I dizionari, come l’Oxford English Dictionary o il Treccani, ne danno conto, ma la diffusione delle parole nuove dipende da chi le usa. Perciò non prendetevela coi lessicografi

Per festeggiare i novant’anni dalla pubblicazione della prima edizione completa, l’Oxford English Dictionary nei giorni scorsi è stato arricchito di oltre 650 parole, significati e sottovoci. Tra queste anche parole regionali, come l’inglese gallese per cipollotti: jibbons. O bigsie, di origine scozzese, per avere un senso smodato della propria importanza. O ancora lo scozzese fantoosh: appariscente, con sfumature negative.

«La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si avverte, perché ci siamo dentro», ha scritto Tullio De Mauro: la lingua è viva. Per questo le case editrici aggiornano i propri dizionari, come appunto l’autorevole Oxford English Dictionary.

La lingua è viva e ciò che la rende tale è l’uso: il modo in cui tutti i giorni la parliamo, la leggiamo sui giornali o nei romanzi, la ascoltiamo in tv. Uno straniero che arriva in Italia, per capire l’Italiano oggi ha bisogno di un dizionario che, oltre alla parole impiegate da anni, spieghi il significato anche di quelle entrate nell’uso più di recente: i neologismi (come quelli dell’Oxford English Dictionary citati sopra). “Parola o locuzione nuova, non appartenente cioè al corpo lessicale di una lingua”, così li definisce il dizionario Treccani. La lingua, chi usa la lingua, ricorre alla creazione di neologismi, spiega ancora il Treccani, “per rispondere alla necessità di esprimere concetti nuovi, di denominare o qualificare nuove cose e istituzioni”. Per questo i neologismi raccontano la storia di una lingua e di un popolo. Se ad esempio scorriamo Neologismi. Parole nuove dai giornali (2008-2018) – edito da Treccani e diretto da Valeria Della Valle e Giovanni Adamo, che raccoglie appunto i neologismi apparsi nel decennio – troviamo parole e locuzioni che sono un po’ una sintesi per immagini di questi anni: come algoritmocrazia, balotellata, biotestamento, criptovaluta, esodato, fake news, famiglia arcobaleno, fashion blogger, foreign fighters, green economy, grillinizzarsi, hashtag, hater, Italexit, mignottocrazia, no-euro, no-vax, svapare, startupper, talent show, veganesimo, youtuber, webete.

Anche una parola nuova accolta in un dizionario, al tempo dei social può diventare motivo di indignazione e di polemica. Perché nei social tutti abbiamo il diritto (a volte sentito come un dovere) di dire la nostra, a prescindere dalle competenze su un tema o dalla voglia e capacità di approfondirlo. Perché “uno vale uno”, al di là di ogni considerazione. E così succede che il vocabolario Treccani, a leggere qualche tweet, «dovrebbero chiamarlo Treccani e Porci». E poi «la #treccani che problemi ha?». E ancora, con piglio conservator-sovranista, «la lingua italiana sta andando a rotoli». E tanto basta a far titolare i giornali e i siti web sul popolo dei social che insorge.

Tutta colpa di Ferragnez: parola accolta tra i neologismi del Libro dell’anno Treccani (2018). Se non c’è bisogno di chiarirne il significato, aiutano però alcuni chiarimenti linguistici.

«Ferragnez è un nome proprio del tutto particolare», spiega Silverio Novelli, giornalista che coordina la sezione Lingua italiana del portale Treccani.it e che scrive la sezione Neologismi del Libro dell’anno: «sfrutta un modulo neologistico piuttosto produttivo nella lingua dei media, quello della parola macedonia, come Brangelina = Bra(d Pitt) + (A)ngelina (Jolie) o Billary = Bill (Clinton) + (Hill)ary (Clinton). È presente nel Libro dell’anno che, tra le altre cose, racconta un anno di avvenimenti nel mondo e in Italia anche attraverso le parole coniate o le più adoperate nel periodo temporale preso in considerazione”.

Quanto sia sensata la scelta del Treccani di segnalare Ferragnez ce lo dice il fatto che se cerchiamo con Google otteniamo più di 630 mila risultati, oltre alle migliaia di tweet e post Facebook e Instagram.

Prontamente Treccani risponde così, su Twitter, alle polemiche:

«Se qualcuno avesse davvero perplessità su sarrismo e Ferragnez, specifichiamo: registrare un neologismo segnala che una parola “nuova” è diventata piuttosto comune in contesti relativamente sostenuti, come quello giornalistico. Questo non significa scommettere che quella parola resterà scolpita per sempre nella lingua italiana, né che indichi un fenomeno di cui si occuperanno i libri di storia. Sia detto col massimo rispetto e affetto per Maurizio Sarri, Chiara Ferragni e Fedez. I neologismi che registriamo – continuano i tweet – sono uno specchio di come parlano e scrivono gli italiani, non di quello che crediamo debbano dire o scrivere. Nella maggior parte dei casi nessuno ha alcunché da ridire sulle parole che registriamo. Altre volte, le opinioni già formate in ciascuno fanno confondere l’operazione linguistica con una specie di bollino di qualità. Non lo è: rilevare un neologismo non implica giudizi morali, né artistici, né sportivi».

Ancora Novelli ci spiega come si muove in questi casi un lessicografo: «il compito del lessicografo cacciatore di parole nuove è di ricercare e schedare le parole/locuzioni nuove affidandosi a fonti scritte: in primo luogo i giornali (su carta o in Internet) e i siti d’informazione, i più diffusi e autorevoli: dai generalisti ai settoriali (dalla scienza e tecnologia allo sport; dalla moda alla gastronomia, ecc.)». La scelta di neologismi, aggiunge, «è frutto di un’osservazione che si basa sulla soddisfazione da parte del neologismo di una serie di requisiti. Innanzitutto la frequenza: la parola è usata spesso e in modo continuativo. Poi la varietà d’uso: la parola è usata in contesti e in registri differenti. La produttività: dalla parola possono derivarne altre (buonista > buonismo, cattivismo > cattivista). E infine la rappresentatività: la parola denomina nuovi concetti (diritto all’oblio) e colma vuoti lessicali (ciclofattorino) o terminologici (materia seconda)».  Poi, conclude Novelli, dar conto di un neologismo «non implica alcun gradimento o sdoganamento morale, politico, ideologico, religioso, ecc. di chi usa la parola, né significa che la Treccani autorizza l’uso della parola, perché l’autorizzazione se l’è già data chi la parola la adopera».

 

Daniele Di Stefano

Foto © Skuola.net

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