Cristiani e minoranze religiose in Turchia: quale futuro?

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Intervista a Chiara Zappa, autrice di ”Mosaico Turchia. Viaggio in un Paese che cambia”

Dalla Siria all’Egitto e all’Iraq, i cristiani del mondo arabo, discendenti delle prime e più antiche comunità al mondo, stanno attraversando uno dei momenti più difficili della loro storia. Guerre, persecuzioni, relazioni a volte complicate con le forze emerse dopo le Primavere arabe rendono la loro sopravvivenza precaria, quando l’unica opzione possibile non è la fuga o la conversione forzata di fronte all’avanzare di milizie islamiche integraliste.

Confrontata con questo scenario sconfortante, la vicina Turchia finisce per sembrare una piccola oasi di pace per la presenza cristiana e di altre minoranze religiose. Lo è, in apparenza, ma la Turchia, attuale, in forte cambiamento, non è sempre un Paese facile per chi non è cittadino etnico turco e musulmano sunnita. Chiara Zappa (nella foto), giornalista milanese, redattrice del mensile “Mondo e Missione” del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), ha fotografato la situazione attuale in un interessante libro, Mosaico Turchia. Viaggio in un Paese che cambia (Ets, 14,90 euro). Frutto di numerosi viaggi e inchieste, il volume ci guida attraverso le comunità cristiane degli armeni, dei greci ortodossi, dei siriaci, dei turchi convertiti al cristianesimo ma anche della nuova immigrazione in Turchia, che porta nuovi cristiani, dai rifugiati iracheni cristiani caldei ai cattolici coreani a Istanbul e ai protestanti. Zappa ha incontrato e discusso con gli esponenti delle comunità e ci restituisce un quadro vivo e documentato sulle difficoltà della Turchia di oggi, Paese che vuole essere laico ma che tutt’ora fatica a trovare un giusto equilibrio con chi ha un’appartenenza  religiosa diversa dalla maggioranza, ed è alla ricerca di un nuovo modello di convivenza. Abbiamo posto alcune domande all’autrice di Mosaico Turchia.

 

Come è nato il tuo interesse per la Turchia?

«Ero stata, alcuni anni fa, in vacanza a Istanbul e mi aveva colpita. Ci sono tornata per visitare la Cappadocia. Poi, nel 2011, per Mondo e Missione mi è stato affidato un reportage sulle minoranze cristiane… Si è aperto un mondo innanzi a me. Ho incontrato tantissime persone, che mi hanno raccontato la diversità, la pluralità di questo Paese, che tende a presentarsi al mondo con un’immagine monolitica, esaltando la purezza turca e l’Islam sunnita. Girando, è facile rendersi conto della ricchezza culturale che proviene dalla diversità. A cominciare dall’architettura: da quella islamica creata da architetti armeni e greci al servizio degli Ottomani alle chiese rupestri della Cappadocia. Per non parlare delle popolazioni: in Turchia ci sono ancora siriaci che parlano l’aramaico, curdi, armeni, arabi di religione greco-ortodossa, ebrei… Il libro è frutto di cinque viaggi, in diverse regioni».

Qual è la situazione attuale dei cristiani in Turchia?

«È una situazione di forzata discrezione e basso profilo, e di diritti limitati. La libertà di culto esiste, ma nessuna comunità può avere personalità giuridica, per cui non può possedere edifici di culto o scuole. Non è proibito convertirsi, ma i turchi che lo fanno vanno incontro allo stigma sociale, più o meno forte a seconda della regione. È più facile nelle grandi città come Istanbul o Izmir, ma nell’Anatolia profonda o nel Ponto – dove la chiusura sociale è più forte – si rischia di essere allontanati e diseredati dalla famiglia e di perdere il lavoro. Ho conosciuto, per esempio, una ragazza musulmana alevita, a Mersin, che è diventata cristiana. È stata emarginata e non riesce a trovare un lavoro adeguato ai suoi studi universitari. Fra le comunità cristiane storiche – greca, siriaca, armena – c’è un forte orgoglio identitario. Un fenomeno interessante è il cambiamento in corso in seno alla Chiesa latina, nata con i mercanti e i viaggiatori. L’uso della lingua turca la rende punto di riferimento per chi, per esempio, fa fatica a pregare nella lingua d’origine, come alcuni arabi ortodossi, le cui giovani generazioni parlano solo turco, e non arabo. L’immigrazione di africani, filippini, coreani ha portato nuova linfa e anche un nuovo clero. Ci sono sacerdoti africani, polacchi, romeni».

Quale luogo ti ha affascinata maggiormente?

«Sicuramente Istanbul. Amo i contesti urbani e lì si respira la Storia negli edifici, nelle tradizioni, nel cibo. Mi affascina l’estetica della città e il suo essere simbolo di tanti imperi e sovrapposizioni».

Sei stata anche a Trebisonda, dove nel 2006 è stato assassinato da un sedicenne don Andrea Santoro. Qual è stata la tua esperienza?

«La bellezza del Mar Nero contrasta con la chiusura dell’ambiente. C’è una piccola comunità cristiana, di una ventina di persone, guidata da un sacerdote francese che mantiene un atteggiamento prudente. Basti dire che per accedere alla chiesa bisogna suonare un campanello. Il prete accoglie tutti: ci sono migranti, ma anche molte donne dell’Est, armene, georgiane. Ma al momento della consacrazione, chiede ai non cristiani di uscire. Ci sono troppi pettegolezzi e superficialità nell’approccio ai cristiani, è un modo di proteggersi in una situazione difficile. Trebisonda è la roccaforte degli ultranazionalisti».

 

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Non tutto l’Islam turco è chiuso al dialogo.

«No, in Turchia c’è una forte tradizione sufi, di Islam mistico e spirituale. Fra i frati minori di Santa Maria in Draperis, a Istanbul, attenti al dialogo interreligioso, c’è un’amicizia con i dervisci Mevlevi (nella foto), che culmina in una giornata annuale di preghiera comune. C’è un dialogo aperto anche con i musulmani che fanno riferimento al teologo islamico Fethullah Gülen. Mustafà Kemal con l’imposizione della laicità dello Stato ha cancellato l’espressione pubblica della fede, inclusa quella delle confraternite. La dimensione religiosa oggi è confinata nel privato».

 

 

 

 

 

 

Cosa sta cambiando con il partito islamico di Erdogan al potere?

«Pur mantenendo la laicità dello Stato, si sta ridando dignità pubblica alla religione. Sono stati aperti nuovi spazi, e restituiti terreni confiscati. È un segnale positivo, anche per le comunità non islamiche. Per esempio, per la prima volta è stata consentita una celebrazione annuale al monastero di Sumela, nel Ponto (nella foto), luogo simbolico per la comunità greco-ortodossa, trasformato in museo. La base di Erdogan è una borghesia moderata e praticante, che lo ha sostenuto nell’ascesa al potere. Ci possono essere aspetti criticabili della sua politica, ma il lato positivo è questa maggiore apertura religiosa, in un’ottica moderna, che può migliorare il dialogo interreligioso. È su questo che dobbiamo lavorare».

 

 

Maria Tatsos

 

ⓒ Creative Commons BY-SA, Chiara Zappa

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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