Draghi: «Non è il momento di cambiare linea sui tassi»

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Per il presidente della Banca centrale europea la politica monetaria rimane la stessa, semmai «fate salire i salari». Duello con Weidmann, che insiste su normalizzazione tassi

Nonostante le pressioni la politica monetaria della Banca centrale europea non cambia. Il presidente Mario Draghi resiste: ai venti che spirano da Oltreatlantico, e alle pressioni della Bundesbank, che anche oggi tiene il punto. E il capo della Bce quasi invita – davanti a una platea di economisti, investitori e analisti dei mercati finanziari presenti a Francoforte – governi e parti sociali a far «salire i salari» che rallentano la ripresa dell’inflazione: sono, infatti, «ben al di sotto delle medie storiche».

Sarebbe essenziale «sostenere la domanda», spiega Draghi. Invece accade che fra contrattazioni salariali già chiuse per quest’anno, parti sociali che danno priorità al mantenimento dei posti piuttosto che ai salari, indicizzazioni falcidiate dalla crisi, le retribuzioni rimangono al palo. Una presa di posizione singolare per un’istituzione, la Bce, più nota per mettere l’accento sulla produttività. Ma non si tratta della prima volta: un mese fa il presidente della Banca centrale europea aveva dichiarato che «ancora non abbiamo visto sviluppi significativi sul fronte dei salari, che sono un aspetto fondamentale».

Un elemento in più che rafforza il quadro generale delineato da Draghi: «non vedo motivo per deviare dalle indicazioni che abbiamo dato» sui tassi d’interesse, sugli acquisti di titoli e sulla «forward guidance» (la comunicazione che orienta le attese dei mercati), sostiene il presidente a Francoforte alla consueta conferenza intitolata alla “Bce e i suoi osservatori” (“Ecb Watchers” ). E che sta dando risultati: prima in Germania, poi in Spagna, e ora anche in Italia, Irlanda e Portogallo. La disoccupazione, invece, resta alta.

Nonostante una ripresa che «guadagna forza», trainata da un «circolo virtuoso» consumi-occupazione-redditi, l’inflazione è sostenuta ancora dal denaro facile offerto dalla Bce (una ricerca di Istat-Insee-Ifo prevede un 1,7-1,8% da qui all’autunno). E per poter cantare vittoria su questo fronte è ancora presto: ci vuol un’inflazione che non solo tocchi il 2%, come successo a febbraio prima del dietro-front all’1,5% a marzo, ma che si stabilizzi e resti sulle proprie gambe su quei livelli. Invece, al netto della volatilità dei prezzi petroliferi e alimentari, non è così: l’inflazione di base «rimane debole», spiega Draghi.

A dispetto della Federal Reserve, che si prepara a due nuovi rialzi, e al costo di un gap fra i tassi in Usa e in Europa che rischia di diventare insostenibile, Draghi mantiene dunque la barra dritta sulla “forward guidance“. Quella comunicazione manterrà – ed è qui il vero scontro con i “falchi” guidati dalla Bundesbank che avevano parlato di una stretta prima di fine anno – il messaggio secondo cui i tassi potrebbero persino scendere ancora.

Jens Weidmann della Bundesbank, tornato nel dibattito pubblico, ieri, a sottolineare che dal “quantitative easing” si deve uscire presto, a Berlino oggi difende il proprio dissenso «legittimato» dall’orientamento ancora espansivo di Draghi. Schermaglie che riflettono solo in parte il braccio di ferro nel consiglio della Bce dell’8 e 9 marzo. Allora i “falchi” avevano avanzato l’ipotesi di togliere dalle comunicazioni ufficiali della Banca centrale europea l’impegno ai «tassi ai livelli attuali o inferiori». Ma la maggioranza dei consiglieri Bce – come emerge dai verbali della riunione diffusi oggi – non si fidano della ripresa, e temono che «dei cambiamenti nella formulazione, in questo momento, potrebbero portare a un rialzo dei tassi di mercato e a un inasprimento delle condizioni finanziarie».

 

Klivia Böhm

Foto © European Central Bank

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