Giornata della memoria del genocidio dei Greci dell’Asia minore

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Il Paese ellenico nel 1923 accolse 1 milione e 200 mila sopravvissuti in fuga dall’Anatolia. Dopo massacri, lavori forzati per gli uomini e deportazioni per donne e bambini

Il 14 settembre ogni anno in Grecia si ricorda un genocidio poco noto al di fuori dei confini dello stato ellenico: quello dei Greci dell’Asia minore. L’evento è stato istituito dal Parlamento greco nel 1998. Per chi non ricorda o non conosce la storia di questa parte d’Europa, la domanda sorge spontanea: cosa ci facevano dei greci in Asia minore, cioè nell’attuale Turchia? E perché furono massacrati? E da chi?
Fin dai tempi antichi, i greci in veste di coloni si erano insediati lungo la costa egea dell’Anatolia. Avevano fondato città prospere e note, come Efeso (nella foto), Mileto e Pergamo, spingendosi verso l’entroterra in regioni come la Cappadocia o la Frigia. Intorno al 650 a.C. sul Bosforo avevano edificato il primo insediamento di Bisanzio, che poi fu rifondata come capitale greco-romana da Costantino. Quando i turchi iniziarono, a ondate, ad arrivare in Anatolia verso l’anno 1000, i discendenti dei greci rimasero nelle terre dove abitavano ormai da secoli.
odeon_-_efesoQuando Costantinopoli cadde nel 1453, i greci divennero sudditi del neonato impero ottomano. Le terre d’Asia minore dominate dal sultano presentavano una presenza turca, affiancata però da numerose minoranze, le principali erano greci, armeni, assiri, curdi, ebrei, arabi. Un mosaico di popoli che trovò un modus vivendi – malgrado le vessazioni cui erano sottoposti soprattutto i cittadini non musulmani – fino agli inizi del Novecento.
L’insorgere dei nazionalismi e poi lo scoppio della Prima guerra mondiale cancellarono per sempre questa secolare convivenza. La Grecia, alleata con Francia e Inghilterra, proseguì i combattimenti anche dopo il 1918, illudendosi di poter realizzare la “Grande Idea”, il sogno di riprendersi Costantinopoli con la Tracia orientale e la costa egea. A pagarne le spese, furono i greci che vivevano in Anatolia, tramutatisi già dal 1915 da sudditi ottomani a potenziali traditori e nemici dei turchi. Massacri di civili inermi, lavori forzati per gli uomini e deportazioni per donne e bambini decimarono la popolazione, che moriva per fame e malattie quando non era trucidata.

A partire dal 1921, le vittoria inizia non arridere più all’esercito ellenico. Il 9 settembre 1922 Smirne, in mano ai militari greci, viene riconquistata dall’esercito turco (nella cartolina, il lungomare nel Novecento). La città all’epoca contava 370 mila abitanti di cui 165 mila greci ed era fiorente e cosmopolita, grazie soprattutto alla sua popolazione non turca. Il 13 settembre scoppia un immane incendio nei quartieri greco e armeno, di origine controversa (si dice che fu appiccato dai turchi). Dai 10 ai 15 mila greci muoiono nell’incendio (nella foto d’epoca, gli edifici in fiamme e gli abitanti che tentano la fuga).carte-postale
Proprio per ricordare il rogo di Smirne è stata scelta la data del 14 settembre, che è stata dedicata alla memoria di tutti i greci morti in Anatolia. Manifestazioni, dibattiti ed eventi culturali che si tengono ogni anno in questa giornata rievocano la fine di un’era, quella della millenaria presenza greca in Asia minore. Con il trattato di Losanna del 1923, infatti, Grecia e Turchia stabilirono un vero e proprio scambio di popolazioni: 1 milione 200 mila greci d’Asia minore – i sopravvissuti a un genocidio che le autorità turche non riconoscono – giunsero in Grecia. Una marea umana di profughi che avevano perso tutto si riversò in una piccola Grecia di 4 milioni e mezzo di abitanti, creando un’emergenza umanitaria di proporzioni inaudite.
A quasi cent’anni di distanza da questi eventi, la Grecia e le sue isole accolgono ancora immigrati e richiedenti asilo. E spesso è la gente semplice a regalare del cibo o una coperta. «Anche i miei nonni sono stati profughi», qualcuno commenta. I discendenti dei greci dell’Asia minore non dimenticano.

Maria Tatsos

Foto © Carlos Delgado /Creative Commons

 

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

2 Commenti

  1. Anche i miei nonni erano tra i greci pontici che fuggirono e si stabiliscono a Serres vicini al confine bulgaro, e poi scesero a Salonicco dove nacqui io. Parlavano il ‘pontio’, quella lingua mista greco turca. Quante storie mi hanno raccontato! Che peccato che l’Asia minore abbia perso i greci dopo quasi 3 mila anni. Che ingiustizia

    • Grazie Christos per la tua testimonianza. Il dialetto del Ponto in realtà non è unico, e alcuni greci del Ponto in alcune zone erano persino turcofoni. Comunque il dialetto include delle parole turche, come peraltro il greco (dopo 500 anni di dominazione ottomana era inevitabile) ma ha forti radici che portano al greco antico, come alcuni studi recenti dimostrano. Con lo sterminio e la cacciata dei greci, la Turchia ha perso quella pluralità etnica che è stata una ricchezza inestimabile. E noi abbiamo perso la nostra patria, come diceva mia nonna.

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