I sogni infranti della generazione Tien An Men

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Intervista a Xiaolu Guo, autrice del romanzo “La Cina sono io”

Sono trascorsi 25 anni dalla protesta di piazza Tien An Men a Pechino e la Cina attuale sembra aver voltato pagina. Le giovani generazioni, cresciute in una società non democratica, ma guidata da un partito deciso a rendere accessibile il benessere materiale a un numero sempre crescente di persone, paiono disinteressati innanzi ai temi che hanno infiammato chi è venuto prima di loro. Ciò che conta oggi è la ricchezza, né più né meno come avviene in Occidente. Non ci sono ideali che infiammino gli animi di fronte a questa prospettiva schiettamente individualista.

In questo scenario, il romanzo La Cina sono io (Metropoli d’Asia, 15 euro) della scrittrice Xiaolu Guo è a cavallo tra la denuncia e l’ammissione di una sconfitta. Il mondo sta cambiando, anche in Cina, e occorre prenderne atto. Con questa storia, la scrittrice cinese sembra voler raccogliere i cocci di un sogno infranto.

Ispirato a un celebre verso del poeta americano Allen Ginsberg, il titolo di questo libro – in cui la parola “America” è sostituita con “Cina” – ci rimanda a una generazione alla deriva, quella di Tien An Men, che ha dovuto rassegnarsi ad accettare il tramonto di un ideale di cambiamento. I protagonisti di questo romanzo, che ha un forte sfondo politico, sono due ragazzi del 1989: la poetessa Deng Mu e il suo compagno, il musicista punk Kublai Jian, figlio ribelle di un alto papavero del partito. La loro storia riaffiora lentamente grazie a un epistolario, che Mu consegna a un editore inglese, dopo aver perso i contatti con Jian. La giovane traduttrice britannica che se ne occupa entra nella vita dei due protagonisti, al punto da esserne totalmente assorbita. Scopre che Jian, dopo aver redatto un misterioso manifesto rivoluzionario, è stato arrestato e condannato all’esilio, mentre la sua donna ha assunto una posizione più apolitica e meno ribelle.

Xiaolu Guo, 41 anni, un marito australiano e una figlia piccola, vive a Londra da otto anni. È scrittrice e regista, e con il film She, a chinese nel 2009 ha vinto il Pardo d’Oro al Festival del cinema di Locarno. Molti dei suoi libri e film, malgrado i riconoscimenti internazionali ottenuti, non sono mai circolati in Cina.

Abbiamo incontrato Xiaolu Guo in occasione dell’uscita della traduzione italiana di La Cina sono io.

È molto tempo che non rientra in Cina?

«Sono partita dalla Cina dodici anni fa. Ho vissuto a Parigi e in Germania, prima di stabilirmi a Londra. Torno spesso in Cina, ogni sei mesi, per girare nuovi film».

xiaolu GuoAi tempi di Tien An Men lei aveva sedici anni e viveva con la famiglia lontano da Pechino. Ma di quei fatti serba memoria. Quanto c’è di autobiografico nei personaggi del suo romanzo?

«Come Mu, anch’io ho perso mio padre per un tumore. E mi sono ritrovata a vivere quest’esperienza sei mesi prima che avvenisse, attraverso il mio personaggio. Ma sono anche Jian, e persino Iona, la traduttrice. Come lei, anch’io ho vissuto un periodo di libertà sessuale, in cui sono andata alla ricerca della mia identità attraverso il sesso. Un’esperienza che può essere anche violenta, per una donna. Ho riversato parete del conflitto che mi ha lacerata in tutti i tre personaggi del libro».

Il conflitto fra Jian, che identifica l’arte con la rivoluzione, e Mu, che invece è  più pragmatica e apolitica, fa parte di quanto anche lei ha sperimentato?

«Certamente. Negli ultimi vent’anni, anch’io ho compiuto un percorso, che mi ha portata a comprendere meglio la società orientale e occidentale. Mu pensa che la continuità della vita sia più importante della politica, mentre Jian antepone la rivoluzione a ogni cosa, non accetta di riconciliarsi con la realtà. Credo di essere stata come Jian per parte della mia vita, ora mi sento più vicina a Mu. Dare la vita, che è una capacità femminile, porta ad avere maggiore saggezza».

Come vede i giovani cinesi di oggi?

«Penso che siano politicamente indifferenti. La mia generazione, o anche quella dei miei genitori, hanno saputo appassionarsi alla politica e unirsi alla rivoluzione, senza ripensamenti. Ma i giovani hanno visto i loro genitori e nonni in prigione, e hanno imparato a prendere le distanze, per proteggersi».

E quelli che erano giovani ai tempi di Tien An Men, che oggi hanno 45/50 anni?

«Credo che siano rimasti delusi, e abbiano perso la loro fede nella politica. Alcuni avvertono ancora una passione nascosta nei confronti della lotta per la democrazia, ma sanno bene che se si espongono rischiano di essere puniti dal governo, o esiliati. È una generazione vinta, che ha dovuto passare da un sogno adolescenziale utopico, in cui credevano, alla realtà attuale, di persone di mezza età».

Quale atteggiamento hanno oggi le autorità cinesi nei confronti di chi critica il governo, anche attraverso la letteratura?

«Penso che la situazione stia cambiando e si sta ammorbidendo. Una volta, la censura era estremamente severa, soprattutto agli inizi degli anni Novanta. Oggi Ai Wei Wei, il più noto artista che si oppone alle autorità, non è più in prigione, vive a Pechino e non gli è consentito viaggiare. Il nuovo presidente, Xi Jinping, ha come priorità quella di combattere la corruzione. Credo che nella società debba sussistere un certo grado di libertà, se non si vuole che si disintegri. Quindi, un artista intelligente può trovare il modo di esprimere una voce critica, attraverso la metafora artistica. È una sorta di gioco, in cui conta l’istinto di sopravvivenza e la capacità di cogliere il cambiamento, che è comunque in corso».

Cosa pensa della lotta degli studenti in corso a Hong Kong?

«È una situazione molto complessa, in cui si intersecano il passato coloniale britannico – l’Inghilterra se ne è andata senza costruire una nuova realtà – e il passaggio alla Cina continentale comunista. L’identità hongkonghese è inoltre molto peculiare, non esisteva prima che gli inglesi inventassero questa zona economica, e non può essere ignorata».

Ma c’è una censura in atto nei confronti di quanto sta avvenendo…

«Certo, ed è logico che sia così. Il potere cerca sempre di preservare se stesso, e i media vengono manipolati. Succede in Cina, ma anche altrove. Il problema nasce quando una struttura statale finisce per non rappresentare più il popolo, come ho voluto dire nel mio libro: “La Cina siamo noi. Il popolo. Non lo Stato”. Se lo Stato non rappresenta più i sogni e i desideri dei suoi cittadini, l’intera società ha un problema. Non succede solo in Cina, ma anche in America, o in altri Paesi».

Lei ha scelto di scrivere in inglese, non in cinese. Non è una scelta frequente, per un autore che non è madrelingua, né di seconda generazione. Come mai?

«Ho vissuto per trent’anni in Cina, e ho pubblicato otto libri in cinese. Quando sono approdata in Inghilterra, mi sono trovata in una situazione di “solitudine intellettuale”. Non padroneggiavo ancora bene l’inglese, ma se avessi scritto in cinese nessuno mi avrebbe capita, e chissà quanto avrei dovuto attendere per essere tradotta. Dovevo tentare, ed è stato l’inizio della mia avventura letteraria in una seconda lingua. Mi sentivo, peraltro, più libera, senza quell’autocensura che ogni scrittore si impone quando scrive nella sua lingua madre. Per esempio, amo molto Italo Calvino e ho provato a ispirarmi alla sua struttura narrativa, cosa che non avrei mai potuto fare scrivendo in cinese».

Cosa può fare l’Occidente per aiutare la Cina a diventare più democratica?

«I rapporti fra le potenze oggi sono influenzati dalla cooperazione economica. In questo villaggio globale, siamo tutti nella stessa barca. Chi non fa attenzione alle reazioni altrui sullo scenario internazionale, finisce per essere marginalizzato. La stessa Cina non può restare immune e indifferente riguardo al dibattito globale sulla democrazia, perché fa parte del villaggio globale. Dovrà cambiare atteggiamento».

 

Maria Tatsos

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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