Il senso della perdita e dello scorrere del tempo secondo Nanni Moretti

0
563

Con “Mia madre” il regista confeziona un film estremamente personale, costantemente in bilico fra dramma e commedia, vario e complesso come la vita

«Si ama la propria madre quasi senza saperlo, senza comprenderlo, perché è naturale come vivere; e avvertiamo la profondità delle radici di tale amore solo al momento della separazione finale», parole prese da Maupassant che facilmente potremmo attribuire al Nanni Moretti di Mia madre, colme di rimpianto per un qualcosa che non si è riusciti a trattenere e del quale ci si è resi conto solo quando era ormai troppo tardi.

La narrazione del film è in gran parte autobiografica. Il personaggio della madre malata, affidato a Giulia Lazzarini, ricalca quello della vera genitrice del regista, professoressa in un liceo romano apprezzata dai propri studenti anche oltre i limiti del percorso scolastico per le sue qualità morali e umane. Moretti sembra recuperarla solo nel ricordo, come se quando era in vita non fosse riuscito ad esprimere i propri sentimenti nei suoi confronti in maniera schietta e sincera, per una forma di timidezza innata, per una incapacità di estrinsecare quanto è sepolto in profondità. In tal senso il film vuole insinuarsi nelle pieghe dell’anima, comunque sempre in maniera semplice e sobria, mantenendo una misura colma di malinconia che evita qualsiasi patetismo. Il senso della perdita si fa ad esempio evidente nell’immagine dei libri che nessuno sfoglierà più, nella casa vuota ingombra di scatoloni imballati, nella sensazione che le esperienze di una vita intera si disperdono in maniera definitiva e ineluttabile.

41528_pplLa pellicola tocca anche altri registri, eludendo la pura messa in scena del dolore per abbracciare la vita nella sua interezza. Incontriamo allora la figura della regista, alter ego dello stesso Moretti, interpretata da una Margherita Buy costantemente scontenta di se stessa, fallita nei rapporti umani, la quale prende a poco a poco coscienza dei propri limiti. Il film che sta girando tratta della lotta per il lavoro, dell’eterno scontro fra padroni e operai. I medesimi ideali e le utopie che animavano gli anni settanta, solo depurati di qualsiasi passione, quasi asettici nella loro inane reiterazione.

La barriera che separa la verità dalla finzione assume evidenza concreta nel personaggio della regista, la quale è costretta ad andare avanti nelle riprese nonostante un senso di alienazione crescente si impadronisca di lei. Il suo distacco dalla troupe è totale, quasi parallelo al progressivo congedo dal mondo della madre, persa in discorsi sconclusionati, indice di una erosione inarrestabile della memoria. La regista seguita a ripetere agli attori di stare accanto al personaggio, senza sapere neppure cosa tale espressione davvero significhi.

Il film si apre su uno scontro fra poliziotti e operai che si rivela essere una povera imitazione della realtà. Nulla è come dovrebbe essere, il senso di inadeguatezza sembra saturare lo spazio. Anche l’attore principale, un istrionico John Turturro, ad un certo punto grida tutta la propria voglia di tornare al mondo reale, abbandonando definitivamente un ruolo che non gli si confà, come un vestito divenuto troppo stretto, o troppo largo.

In quest’ottica Mia madre è anche un film sul cinema, allo stesso modo di Effetto notte di Truffaut. In questo caso però Moretti sceglie di farsi da parte, di mascherarsi nel ruolo del fratello della regista per trattare la materia con il dovuto distacco, evitando un coinvolgimento troppo diretto. Il personaggio di Giovanni conserva una calma apparente, riuscendo ad arginare il caos che alberga dentro di lui, ma che si manifesta nella decisione, maturata ma comunque irrazionale, di abbandonare definitivamente il lavoro. In questo modo si illude forse di recuperare un mondo infantile che si perde insieme alla madre perchè, come scrive ancora Maupassant: «è tutta la nostra infanzia che scompare per metà, perché la nostra breve vita di bambini apparteneva tanto a lei quanto a noi».

Il film ha inoltre momenti di comicità assoluta come quando Turturro, attore presuntuoso dalla pronuncia terribile, ma anche profondamente umano, non riesce a girare la scena durante la quale dovrebbe guidare e recitare al tempo stesso. Ancora Turturro ci offre una sequenza memorabile nel ballo con la costumista, che per eccentricità e accattivante simpatia ricorda quello di Jean Rochefort nel Marito della parrucchiera di Patrice Leconte.

Tutto in definitiva si risolve nell’inestricabile intreccio di arte e vita, nell’irrisolvibile alchimia fra dramma e commedia. Il significato del film è forse tutto nella scena in cui Margherita Buy si alza dal letto e trova il proprio appartamento allagato. Cerca di darsi da fare in maniera affannosa e disperata, assorbendo l’acqua con gli stracci e i giornali, ma questa seguita a salire, inesorabile come il tempo irrecuperabile della nostra esistenza.

Riccardo Cenci

Articolo precedenteIl TFR in busta paga: richiesta e convenienza
Articolo successivoCalenda: il TTIP grande occasione per il cibo Made in Italy
Riccardo Cenci
Riccardo Cenci. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne ed in Lettere presso l’Università La Sapienza. Giornalista pubblicista, ha iniziato come critico nel campo della musica classica, per estendere in seguito la propria attività all’intero ambito culturale. Ha collaborato con numerosi quotidiani, periodici, radio e siti web. All’intensa attività giornalistica ha affiancato quella di docente e di scrittore. Ha pubblicato vari libri (raccolte di racconti e romanzi). Attualmente lavora come Dirigente presso l’Enpam.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui