“Il limite come opportunità”: la lezione di vita (e di sport) del Colonnello Campoccio

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Quotidianità, allenamenti e cultura: intervista alla punta di diamante della Nazionale Paralimpica Italiana

Spirito di sacrificio, sopportazione della sofferenza, capacità di trarre lo spunto positivo anche da eventi che di positivo hanno ben poco.

La vita di Giuseppe Campoccio, Tenente Colonnello e Ruolo d’Onore del Genio Guastatore Alpino, è tutta imperniata su questi valori. A un temperamento molto forte di per sé, infatti, Campoccio aggiunge caratteristiche che, come egli stesso afferma, «mi fanno vedere nel limite una opportunità per migliorarmi». Il messaggio è esattamente questo, e il colonnello è probabilmente il più indicato a lanciarlo. Campoccio appartiene infatti al Gruppo Sportivo Paralimpico Difesa: dal 2017 entra a far parte della Nazionale Paralimpica Italiana, nelle discipline del peso, disco e giavellotto (categoria F33 – cerebrolesione media).

Nato a San Candido, in provincia di Bolzano, nel 1966, e residente ormai da molti anni a Cassino, nel frusinate, nel 1991 il Colonnello Campoccio è vittima di un incidente in servizio in area italiana. Posto in congedo, gli verrà riconosciuta dal Ministero della Difesa la medaglia di Ferito in servizio e il Ruolo d’Onore. Nel gennaio del 2015 entra a far parte del Gruppo Sportivo Paralimpico Difesa, costituito poche settimane prima, partecipando ai Campionati Italiani di Atletica Master categoria M45 – competizione per normodotati – tenuti a Cassino nel giugno 2015 e in cui riporta un 4° posto nel peso, un 5° posto nel disco e un 5° posto nel giavellotto. Nell’agosto successivo, un’infezione ossea gli causa una cerebrolesione che comprometterà la funzionalità del braccio e della gamba sinistra, impedendogli di deambulare e costringendolo alla sedia a rotelle.

Ma la sua forza di volontà è un fiume in piena. Incontrollabile. Il colonnello non molla – guai a pensarci! – e continua a praticare discipline sportive a livello competitivo. Il suo impegno può essere visto come la giusta modalità per onorare la divisa che indossa, tanto che l’ex Ministro della Difesa Roberta Pinotti e l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Claudio Graziano, gli rivolgono attestati di stima ed encomi scritti. I tecnici federali paralimpici italiani lo considerano «uno dei lanciatori più forti della storia Italiana nella categoria seduti», e difatti dei suoi risultati sportivi parlano i maggiori media italiani.

Colonnello Campoccio, cosa c’è alla base di una rivincita così grande con la vita?

«Non mi sono mai arreso. E nonostante la mia condizione, ho messo sacrificio e dedizione immensi in quello che facevo. L’handicap motorio al lato sinistro non ha mai ostacolato il mio percorso di riabilitazione».

C’è da crederci, visto che per riprendere confidenza con lo sport faceva sei ore al giorno di cyclette e due di nuoto.

«Esatto. Coadiuvato da nessuno se non dalla mia forza di volontà. D’altra parte, nonostante momenti difficili ce ne siano e ce ne siano stati, dopo l’incidente del 1991 mi ero ripromesso che nulla avrebbe mai più scalfito la serenità della mia vita. Ho preso consapevolezza di quanto fosse determinante valorizzare la parte sana del corpo, piuttosto che piangere per quella persa».

Ecco, ha toccato un altro punto fondamentale. L’accettazione della propria condizione.

«Mi sono trovato in un attimo dall’essere un ragazzo che portava il mondo sulle spalle a vedere quel mondo completamente cambiato. In questo mi ha aiutato tantissimo anche la mia forma mentis, risultato di quella sportiva e di quella militare. Ha saputo fare in modo che arrivassi a un punto cruciale a cui dovrebbe ambire ognuno: superare sé stessi».

A questo bisogna però unire una grande pazienza e costanza nel sacrificio, nell’inseguire i risultati.

«Certamente. Con il lavoro, i miglioramenti arrivano. Non sono immediati ma sono costanti, passo dopo passo. E d’altra parte, senza l’attesa non ci può essere adeguata soddisfazione. Ciò vale nello sport con gli allenamenti, ma è un ragionamento che può essere tranquillamente esteso alla vita con la conoscenza, lo studio, l’apprendimento, le relazioni, l’amicizia, l’amore».

Colonnello, lei è il primo e unico ufficiale dell’Esercito con incarico di atleta paralimpico. Quanto è bello essere coscienti di poter dare comunque una mano al proprio Paese?

«Tantissimo. Fortunatamente per me non sono mancate le soddisfazioni, che coincidono, come lei dice, con l’occasione di tenere alta la Bandiera. Ventotto anni dopo il mio incidente, il 19 gennaio di quest’anno sono stato richiamato in servizio dal Ministero della Difesa per meriti sportivi presso il Centro Sportivo Olimpico Esercito, alla Cecchignola. Sono fiero e orgoglioso di far parte della Nazionale Italiana Paralimpica di Atletica Leggera».

Eppure, le Paralimpiadi non hanno ancora l’eco mediatica e la partecipazione delle competizioni per normodotati. Come mai, secondo lei?

«È un aspetto che dispiace, anche se stiamo facendo un grandissimo lavoro con il Comitato Italiano Paralimpico, presieduto da Luca Pancalli, e dalla FISPES (Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali), presieduta da Sandrino Porru. Stiamo ottenendo grandi risultati in tutte le discipline: nuoto, scherma, basket. Eccelliamo in quasi tutti i settori. Dal 2012, cioè dalle Paralimpiadi di Londra, sotto l’aspetto del seguito sono stati fatti tantissimi passi avanti, anche se in Italia l’atleta paralimpico è agli occhi dell’opinione pubblica ancora un atleta di Serie B. Eppure i risultati, anche nel nostro caso, sono frutto di fatica, sudore, allenamento. All’estero, specie nei Paesi del Commonwealth, non è così. Viene vissuto il gesto tecnico e il fatto che l’atleta paralimpico rappresenti la Nazione».

Quasi come se ci fosse la necessità di un processo di “normalizzazione”?

«Esattamente. Più si parla della nostra condizione, delle nostre medaglie o anche solo delle nostre competizioni, più queste verranno considerate, appunto, normali dall’opinione pubblica. Perché è come se ci fosse una sorta di paura. Nel mio piccolo, io esco più volte al giorno a Cassino, la mia città. Voglio farmi vedere, per abituare le persone a questa immagine. E mi pare addirittura di notare che in tanti abbiano cominciato a fare lo stesso, superando quel concetto di vergogna che purtroppo è ancora molto diffuso».

Prima però c’è bisogno di un auto-processo di accettazione. E sembra che lei lo abbia portato brillantemente a termine, anche magari attraverso la sua presenza in rete.

«Sembra un non senso, ma io reputo come un dono quello che mi è accaduto, perché da quel momento ha avuto inizio la mia esperienza paralimpica. Diciamo che nella sfortuna sono stato molto fortunato, e in questo credo di averci messo tanto di mio. Come lei accennava, sono molto attivo in rete, ho un sito personale, giuseppecampoccio.it (dov’è possibile reperire immagini, video e il suo incredibile palmarès, ndr), e profili social che curo personalmente e che, devo dire, hanno un buon riscontro da parte del pubblico».

C’è un aspetto della vita quotidiana che ha imparato da un’esperienza di così grande impatto?

«Ho imparato a chiedere. Sembra assurdo, ma per me prima chiedere era una forma di debolezza, e su questo ero molto ermetico. Invece da quando sono in sedia a rotelle, in ogni contesto in cui ho bisogno, chiedo e non mi faccio più di questi problemi».

L’ultimo punto, Colonnello, è quello dell’inclusione nella vita quotidiana. E il pensiero non può non andare alle barriere architettoniche, oltre che al fatto che non tutti hanno ancora la sensibilità giusta nell’approccio.

«Punto dolente e situazione da migliorare, specie culturalmente. C’è tanto da fare, tantissimo. Si pensi soltanto all’accesso nelle metro o sugli autobus, che molto spesso per noi è precluso. Si tratta, appunto, di un problema culturale e di civismo, che da noi manca. E nel 2019 è una cosa assurda, vergognosa, non più tollerabile. Ci sono stati anche episodi vergognosi di discriminazione, fortunatamente rari, che però ti toccano molto. Noi ci batteremo perché, con i nostri risultati in ambito sportivo, se ne possa parlare sempre di più e si possa sempre più sensibilizzare l’opinione pubblica».

 

Domenico Bonaventura

Foto © Radiocassinostereo, Twitter, Fidal, Eurosport

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Domenico Bonaventura
Domenico Bonaventura (Avellino, 1984), giornalista, comunicatore e saggista, vive e lavora tra Lacedonia, in Alta Irpinia, dov'è cresciuto, e Roma. Laurea Magistrale in Scienze Politiche – indirizzo Comunicazione politica, economica e istituzionale – presso la LUISS "Guido Carli" di Roma. Giornalista con una passione rovente per il calcio, la politica e le parole, gestisce diversi uffici stampa, collabora dal 2010 con Il Mattino e dal 2016 con Restoalsud.it. Si occupa di comunicazione istituzionale e d'impresa. Mediamente attratto dalle reti sociali, le utilizza soprattutto per ottimizzare il lavoro. È autore di "Parole e crisi politica" (Ilmiolibro.it, 2013), saggio che analizza il mutamento del lessico politico al tempo della crisi, finalista de "Il mio esordio", concorso letterario nazionale organizzato da Ilmiolibro.it.

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