La flotta perduta di Kubilai Khan alla Fondazione Matalon a Milano

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Una mostra fotografica racconta un’eccezionale scoperta archeologica realizzata da un team italo-giapponese, guidato da Daniele Petrella e Hayashida Kenzo

Come sarebbe cambiata la storia d’Europa se Kubilai Khan, imperatore dei mongoli e sovrano di un immenso regno, nel 1281 fosse riuscito a invadere il Giappone? Forse poi avrebbe puntato all’Occidente e oggi parleremmo tutti cinese? Queste domande di fantastoria sorgono spontanee grazie a una preziosa mostra fotografica intitolata La flotta perduta di Kubilai Khan, esposta da oggi al 1 aprile prossimo alla Fondazione Matalon a Milano.

Le immagini, scattate da Marco Merola e da David Hogsholt, ci portano in Giappone, sull’isola di Takashima, dove è avvenuta una sensazionale scoperta archeologica. Nelle acque di una baia, sono stati rinvenuti negli anni Settanta alcuni oggetti di fattura cinese che subito hanno fatto pensare alle navi scomparse della spedizione di Kubilai Khan. Le ricerche sono state portate avanti dapprima da un team giapponese, ma senza grandi progressi. Finché nel 2006 un archeologo subacqueo italiano, Daniele Petrella (nella foto, a destra), che è anche presidente dell’IRIAE (International Research Institute for Archeology and Ethnology) e conosce la lingua e cultura giapponese, avvia una collaborazione. Con i metodi introdotti da Petrella, viene avvistato il primo relitto sul fondale di una baia. «In dieci anni di lavoro», racconta lo studioso italiano, «ne abbiamo ritrovati 260, a una profondità fra i 15 e 35 metri». Ma se la spedizione avrà i fondi necessari per proseguire in alto mare, potrebbero esserci altre interessanti sorprese. Gli scatti fotografici mostrano alcuni dei reperti, che stanno già aiutando gli studiosi a riscrivere la storia. Per esempio, le bombe da lancio in terracotta, piene di polvere da sparo e frammenti di ferro, che sono state scoperte sott’acqua dimostrano che i cinesi padroneggiavano questa tecnologia ben prima degli occidentali, confutando l’idea che fossero state inventate in Europa nel XV secolo.

Perché mai il Gran Khan dei mongoli, nipote di Gengis Khan e signore di quasi tutta l’Asia orientale, ci teneva così tanto a impossessarsi dell’arcipelago giapponese? Per una questione d’immagine e di potere, diremmo noi oggi: il discendente dei guerrieri delle steppe Kubilai si era fatto sedurre dalla millenaria cultura cinese, mutando il nome della sua dinastia da Menku in Yuan. Di fronte alle accuse dei suoi generali di essersi sinizzato, perdendo lo spirito combattivo, il Khan si giocò la faccia cercando di soggiogare il Giappone. Pareva un’impresa facile: bastava attraversare un breve tratto d’oceano partendo dalla Corea e piegare gli isolani. Ma i giapponesi massacrarono gli emissari che chiedevano la sottomissione e per il Khan la guerra divenne un imperativo.

«Ricorsero a giunche fluviali, gestite da marinai cinesi e coreani», spiega Petrella. «I mongoli erano combattenti di terra, non dei navigatori». Secondo fonti cinesi successive, Kubilai avrebbe fatto realizzare 4500 navi per trasportare circa 150 mila uomini, per le due spedizioni di conquista che organizzò. «Una forza di sbarco superiore persino al D-Day in Normandia, che fu di 100 mila uomini», commenta Marco Merola.

Kubilai e il suo esercito non avevano fatto i conti con il tifone: il 15 agosto del 1281 la “Corrente Nera” travolge tutte le navi, facendole scomparire per sempre sul fondo dell’oceano e stroncando i sogni di potenza di Kubilai. Finché Daniele Petrella e Hayashida Kenzo, con un team italo-giapponese di archeologi sub, non riescono finalmente a scovarle. Per lo studioso italiano, è una grande soddisfazione: la sua è la prima e unica spedizione occidentale in Giappone, un Paese piuttosto chiuso a simili collaborazioni. In questo caso, poi, la ricerca in corso si incrociava con una questione patriottica. «Quando l’archeologo e ingegnere Mozai Torao iniziò il lavoro, erano gli anni in cui il Giappone cercano di risollevare il suo orgoglio nazionale, ferito dopo la guerra», commenta Petrella. «Da secoli in Giappone la leggenda raccontava che i mongoli erano stati sbaragliati dal kamikaze, il vento inviato dagli dei per proteggere il suolo nipponico dagli invasori. Era importante trovare le testimonianze di questo evento storico».

Oggi a Takashima,  un mausoleo nella baia di Imari (nella foto) ricorda i caduti mongoli e giapponesi nel 1281. Questa spedizione, che è stata sostenuta anche dal ministero degli Affari Esteri italiano, ha già fatto tanti miracoli: ha restituito agli occhi del mondo una parte della flotta scomparsa, ma ha anche aperto nuovi orizzonti di collaborazione archeologica e culturale.

 

 

 

Info: La flotta perduta di Kubilai Khan. Mostra fotografica della spedizione archeologica. Fondazione Luciana Matalon, Foro Buonaparte 67, Milano. Dal 3 marzo al 1 aprile 2017. www.fondazionematalon.org

Foto: Courtesy ufficio stampa Fondazione Matalon

Maria Tatsos

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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