La questione mai risolta dei rider, in Italia e in Europa

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Il vicepremier Di Maio annuncia una norma che dovrebbe entrare nel testo del reddito di cittadinanza. Gli orientamenti dei giudici, nazionali e non, sono spesso contrastanti

I grandi vantaggi che tutti i giorni godiamo grazie all’innovazione delle piattaforme digitali ci interrogano, o dovrebbero farlo, su grandi questioni relative ai diritti. Ce lo ricordano anche le diverse, e spesso contrastanti, sentenze dei tribunali europei in merito ai rider, i fattorini che ci consegnano a casa i pasti dei ristoranti.

La settimana scorsa sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza della corte d’appello di Torino relative al processo che ha visto cinque ex rider di Foodora fare causa all’azienda tedesca (nel frattempo passata alla spagnola Glovo) per vedersi riconoscere diritti garantiti ai lavoratori subordinati ma non a chi fa consegne per le piattaforme digitali. Mentre il primo grado bocciava tutte le richieste dei rider difesi dagli avvocati Sergio Bonetto e Giulia Druetta, l’appello offre un punto di vista parzialmente diverso.

Pur non riconoscendo ai fattorini il diritto a un contratto di lavoro subordinato (i cinque pedalavano con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato), per la prima volta un giudice afferma che il trattamento economico, quello sì, deve essere equiparato a quello dei lavoratori subordinati: in particolare ai lavoratori inquadrati al V livello del contratto nazionale della logistica, con tanto di ferie e tredicesime. Grazie all’articolo 2 del Jobs act.

I rider torinesi venivano pagati € 5.60 lordi l’ora (che significa grosso modo € 5 netti), chi lavora con contratto della logistica ne riceve 8.63 (ma se aggiungiamo tredicesima e quattordicesima, spiega l’avvocato Druetta, il compenso medio effettivo lordo arriva a circa € 11 l’ora).

La corte d’appello non ha riconosciuto il danno per la violazione della privacy, richiesto dai fattorini per il trattamento dati e per la geolocalizzati attraverso la app sullo smartphone. Né la violazione delle tutele antinfortunistiche e nemmeno l’illegittimità del licenziamento, nonostante la disponibilità dei cinque rider a fare le consegne non sia più stata presa in considerazione, spiega ancora Druetta, dopo che avevano partecipato alle proteste per il riconoscimento di maggiori salari e più diritti.

«Anche se altri giudici non sono vincolati a questo precedente» – traccia un bilancio Druetta – «la sentenza ci dice che chi è trattato nelle medesime condizioni può far valere il diritto a una retribuzione pari al contratto collettivo». E conclude: «È un primo passo avanti, ma resta ancora molto da fare».

 

LE ALTRE SENTENZE.

Quella del giudice di Torino è solo una delle sentenze che in Europa hanno riguardato i fattorini delle piattaforme di food delivery. E pur tenendo conto dei diversi contesti giuridici nazionali, gli orientamenti dei giudici sono a volte contrastanti.

Nel giugno dell’anno scorso un giudice di Valencia ha dato ragione a Victor Sanchez, un rider che aveva chiamato in giudizio Deliveroo: secondo il giudice, Sanchez  era un “falso lavoratore autonomo”, che svolgeva invece le mansioni di un lavoratore dipendente.

Nel settembre il tribunale di Milano invece non riconosceva l’ex rider milanese Mohamed Elazab, che aveva ingaggiato una battaglia giudiziaria contro Foodinho (startup italiana ora proprietà di Glovo), come un lavoratore subordinato, nemmeno nel salario.

Pochi mesi dopo, il 15 gennaio, il tribunale di Amsterdam ha accolto il ricorso di alcuni riders contro Deliveroo: secondo il giudice quei fattorini sono lavoratori dipendenti.

 

GIG ECONOMY E DIRITTI

Se queste sentenze sono piuttosto recenti, il tema dei diritti dei lavoratori delle piattaforme web sale agli onori della cronaca già quando Hillary Clinton, durante la campagna per le presidenziali, ne parla in questi termini: «Questa economia on-demand, o gig economy, sta creando grandissime ricchezze e sta alimentando l’innovazione. Ma sta anche sollevando domande difficili sulla protezione del posto di lavoro e su come sarà un buon lavoro in futuro».

La parola inglese “gig” indica un lavoretto: il termine nasce negli ambienti del jazz americano di inizio ‘900, quando era usato, forse per contrazione da “engagement”, con riferimento all’ingaggio di una serata. Nel nuovo millennio la gig economy, l’economia dei lavoretti, è una delle forme organizzative, uno dei modelli di business dell’economia digitale: in cui i servizi sono offerti grazie all’intermediazione esclusiva delle piattaforme. Le persone lavorano a richiesta, quando il mercato – gli utenti della piattaforma – ne hanno bisogno.

Il legame tra innovazione delle piattaforme digitali e diritti dei lavoratori è stato affrontato anche in Europa. Nel giugno 2016, pubblicando “Un’agenda europea per l’economia collaborativa” (i modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione), la Commissione europea ha precisato che questi modelli «possono dare un contributo importante alla crescita e all’occupazione nell’Unione europea se incoraggiati e sviluppati in modo responsabile». Secondo Jyrki Katainen – vicepresidente della Commissione e commissario responsabile per l’Occupazione, la crescita, gli investimenti e la competitività – l’economia collaborativa va incoraggiata «proteggendo i consumatori e garantendo condizioni eque sia in materia fiscale che di occupazione». Nel gennaio scorso, Enrico Giovannini, già presidente dell’Istat e ministro italiano del Lavoro, a margine dei lavori della Commissione globale sul futuro del lavoro dell’Ilo (International labour organization) ha affermato che i cambiamenti epocali in corso richiedono cambiamenti anche nelle politiche: serve, ha detto, «una garanzia universale sul lavoro, un insieme di diritti minimi che riguardino tutti i lavoratori, compresi quelli che lavorano nella gig economy. Questi diritti minimi non devono essere l’elargizione di una impresa o stabiliti dalla sentenza di un singolo giudice: vanno negoziati a priori, su base sovranazionale». Innovazione, crescita e diritti, insomma, devono viaggiare insieme.

 

UNA LEGGE PER I RIDER

In Italia la questione potrebbe avere una svolta grazie a una nuova legge. Appena diventato ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio sposa pubblicamente la causa dei rider. «Vogliamo assicurare delle tutele minime ai lavoratori della gig economy» – ha dichiarato – «e abbiamo due strade: una è quella in cui il Governo vara una norma in cui si stabiliscono i contenuti minimi retributivi e di tutele assicurative e previdenziali; l’altra è quella di mettere insieme i rappresentanti delle piattaforme e dei riders per costruire un nuovo modello di contratto che riguarda i lavori del futuro. L’auspicio è che si arrivi al primo contratto collettivo nazionale della gig economy». Di Maio batte entrambe le strade.

Nelle bozze del Decreto dignità (il cui testo definitivo viene approvato nel luglio 2018) vengono inserite norme che avrebbero portato le piattaforme a considerare i rider comeprestatori di lavoro subordinato”, ai quali spettano indennità mensile di disponibilità, malattie, ferie, maternità. Qualche piattaforma non la prende bene, minacciando addirittura di lasciare l’Italia perché quelle norme avrebbero reso insostenibile il servizio. Piano B: la norma esce dal decreto e al ministero si apre un tavolo di trattative tra le associazioni dei lavoratori, i sindacati e le aziende (tra cui Foodora, Deliveroo, JustEat, Glovo, Domino’s Pizza, Social Food, Uber eats e Moovenda). Le piattaforme presentano tre proposte che però non soddisfano né i rappresentanti dei rider né i tecnici del Ministero. Il tavolo si arena. A quel punto arriva la sentenza torinese, e Di Maio torna ad annunciare una norma che, stando a quanto filtra dal Ministero dello Sviluppo economico, dovrebbe entrare nel testo del reddito di cittadinanza, in discussione in questi giorni alle Camere.

 

Daniele Di Stefano

Foto © Wired, Sky Tg24, Adnkronos, Lotta Continua, Project Manager

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