Le donne e i fondi per finanziare le imprese femminili

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In Europa sono solo il 30% le aziende gestite dal gentil sesso. In Italia ancora meno. Nonostante leggi e accantonamenti. Intervista a Maria Lustri

Essere imprenditori non vuol dire solo avviare un’attività e renderla remunerativa, non si esaurisce alla produzione di beni o servizi. Essere imprenditori vuol dire prima di tutto riconoscersi tali, avere un’adeguata formazione ed esperienza del settore in cui si opera e, soprattutto, avere fiducia nelle proprie potenzialità. Fare impresa inerisce non solo aspetti economici e strutturali, ma anche personali e sociali. Sembra che in Europa non esista un clima di fiducia e sicurezza tali da spingere le persone a mettersi in proprio, a puntare tutto su se stessi e sul lavoro autonomo. Molto dipende dalla politica, dall’economia, da ostacoli materiali e tangibili che scoraggiano l’innovazione e la creatività degli individui. Molto, però, dipende da un regime culturale fortemente tradizionalista e da una scarsa propensione al rischio e all’avventura. Questo stesso clima si abbatte su una categoria sociale da sempre percepita più debole (percepita, perché di fatto non lo è) e quindi trattata come tale: le donne. Per loro è ancora più complicato sviluppare la propria imprenditorialità ed è per questo che esistono fondi europei, nazionali e regionali appositamente dedicati per finanziare le imprese femminili. Sono molti i casi positivi, altrettanti quelli negativi. Un riconoscimento formale e un aiuto economico concreto sono indubbiamente importanti, ma se non sono accompagnati da un cambiamento mentale e culturale corrono il rischio di essere vanificati.

L’imprenditorialità potrebbe essere definita come un fattore importante per lo sviluppo economico e soprattutto personale. Un lavoro imprenditoriale permette l’espressione della creatività, della realizzazione della persona, crea ricchezza materiale e valore, realizza innovazione attraverso nuovi prodotti e servizi, genera occupazione attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro nell’impresa stessa, in quelle dei fornitori e dei clienti e contribuisce alla qualità della vita nella comunità in generale. La Commissione europea si è prodigata negli anni per stimolare lo spirito imprenditoriale in Europa, anche attraverso aiuti e fondi appositamente creati per le PMI e le start-up. Da ricerche condotte sul territorio è scaturito che non sono molti gli europei attratti dalla creazione di una piccola impresa, piuttosto sono ancora attaccati all’idea di lavorare come dipendenti di una società, grande o piccola, o in un ente pubblico. Fattori deterrenti a fare impresa, oltre che strutturali ed economici (come l’accesso ai finanziamenti o la tassazione) sono anche culturali e personali. In Italia le cose non vanno meglio. Secondo l’OCSE l’Italia è un Paese fortemente imprenditoriale, eppure le tasse, la burocrazia e i permessi sono i fattori che lasciano maggiormente perplessi gli imprenditori (e i potenziali imprenditori). Lo afferma anche uno studio del 2014 del GEM (Global Entrepreneurship Monitor). Inoltre il World Economic Forum ha catapultato il nostro Paese al 136esimo posto nel mondo (fra gli ultimi dieci) in tema di produttività.

COPENHAGEN 140624  EC Research Commissioner Maire Geoghegan-Quinn at the 2014 Euro Science Open Forum.

Il tasso di imprenditorialità in Europa è più alto per gli uomini tra i 25-54 anni, con un livello di istruzione più elevato, che dichiarano scarse difficoltà finanziarie e presentano un background familiare. Per gli uomini è due volte più probabile essere coinvolti in attività imprenditoriali (17% vs 8% nel genere femminile). Secondo la Commissione europea gli ostacoli all’imprenditorialità femminile sono:

  • contestuali, quali le scelte educative, le tradizioni e gli stereotipi sulle donne, la scienza e l’innovazione;
  • economici, in quanto l’innovazione del settore richiede notevoli investimenti e le donne sono spesso ritenute economicamente meno credibili rispetto agli uomini per ottenere finanziamenti;
  • soft, quali la mancanza di accesso alle reti di imprese scientifiche, tecniche e generali, la mancanza di formazione aziendale, modelli di ruolo e competenze imprenditoriali.

Le donne imprenditrici in Europa sono solo il 30%. A fronte di queste difficoltà l’Unione europea ha attuto iniziative volte alla qualificazione del lavoro femminile nell’imprenditoria, mettendo a disposizione dei fondi specifici. Ciò avviene anche in Italia, sia a livello nazionale che regionale. Va ricordata la Legge 215 del 1992 “Azioni positive per l’imprenditoria femminile”. Per comprendere i motivi che spingono le persone ad aver paura, a non accettare il rischio o l’idea di un fallimento, per parlare di imprenditorialità femminile e capire cosa significa fare impresa, cercando di ravvisare anche best practices, rimedi e lacune nel sistema politico e nell’utilizzo dei fondi esistenti, nell’istruzione e nella formazione, è stata chiesta l’opinione di Maria Lustri del Ministero dello Sviluppo economico, da sempre impegnata nel campo dell’imprenditoria femminile. Cosa si intende con concetti quali imprenditorialità e innovazione, quali sono le opportunità ed i limiti (culturali oltre che economici) per una donna imprenditrice? La politica sta sostenendo adeguatamente l’imprenditorialità femminile?

Maria Lustri
Maria Lustri

«Vorrei demitizzare quella che viene definita l’attitudine imprenditoriale come propensione al rischio, capacità di leadership, ecc. Quando si parla di imprenditorialità o di competenze imprenditoriali pensiamo in genere a capacità quali creatività, organizzazione, pianificazione, comunicazione, networking, capacità di risolvere i problemi, prendere decisioni. Tutte attività che normalmente una donna svolge nell’ambito della gestione di una vita che include casa, famiglia, lavoro e relazioni. Quello che occorrerebbe è accrescere la consapevolezza sul potenziale imprenditoriale e promuovere un percorso di formazione partendo, ad esempio, da situazioni mutuate dalla vita di ogni giorno (come l’organizzazione di una visita di un ospite e di un evento, l’acquisto consapevole) e trasformarle in entrepreneurial skills legate al contesto.

Ogni età o fase della vita o luogo fisico propone dei bisogni, delle possibilità, ed è qui che bisogna essere pronti ed abili a cogliere quello che manca e quello che servirebbe provando a trasformare l’idea in attività col principio che pensare in piccolo non è limitante ma è la giusta visione. Bisogna soprattutto essere felici e questo non si identifica con l’avere molti guadagni o molto potere, ma con la percezione del divertirsi nel fare. Mi viene in mente una start-up di una ragazza che, in un momento di difficoltà nel cercare rapidamente le chiavi di casa nella borsa, ha pensato di crearne una con una tasca illuminata. Ha trovato un investitore e ha presentato il prodotto ad un evento mondiale!

Innovare oggi non significa solamente introdurre una nuova tecnologia, significa bensì mettersi costantemente in gioco, accettare le riflessioni e le critiche, sforzarsi di capire come introdurre la tecnologia nella società civile per migliorare la vita quotidiana.

COPENHAGEN 140624  EC Research Commissioner Maire Geoghegan-Quinn together with Mrs Sofie Carsten Nielsen, Minister of Higher Education and Science at the 2014 Euro Science Open Forum.

Il concetto di innovazione è quindi molto più legato alle persone che ai mezzi, più ai cervelli ed alle loro connessioni ed è per questo che le donne – notoriamente più interconnesse – sono più presenti tra le start-up al femminile. Quindi, potenziare la diffusione dei business game nelle scuole porterebbe ad un avanzamento tecnologico sistematico del Paese. Altra proposta molto stimolante è portare i ragazzi nelle imprese a vedere la produzione e capire di cosa è capace l’ingegno umanano. Questo è un buon esempio di role model.

La Legge 215/92 è servita come legge bandiera: ha fatto emergere, al di là delle ricadute economiche, le idee nel cassetto, la voglia di fare impresa delle donne italiane. La mancanza di uno strumento di sostegno finanziario a livello nazionale ha creato un vuoto culturale più che economico e le attuali autorità preposte alle politiche di genere che avrebbero il dovere di vigilanza sull’utilizzo dei fondi non riescono pienamente a declinare al femminile le risorse comunitarie e nazionali.

Nessuna delle attuali politiche, interventi e le disposizioni che ne derivano hanno riconosciuto appieno le questioni legate al genere nella conduzione delle imprese, né hanno individuato le opportunità di crescita o la diversità che caratterizzano questo importante settore imprenditoriale (ad es. microimprese, imprese a conduzione familiare, imprese con prevalente occupazione femminile).

Occorre tenere ben presente però che quella dell’imprenditorialità femminile è una questione economica e in particolare ricadente in quelle politiche strategiche per lo sviluppo delle PMI che costituiscono più dell’80% delle imprese italiane e, pertanto, da incardinare nelle policy di sviluppo economico.

Molti problemi, inoltre, nascono dalla mancata familiarità con il modo imprenditoriale. Un esempio: una ragazza che non ha nell’ambiente familiare qualcuno che svolge attività d’impesa, manterrà la distanza da questa idea anche nel periodo scolastico (a volte universitario), in quanto le sue figure di riferimento (educatori ed insegnanti) sono a loro volta persone con percorsi lavorativi diversi da quelli imprenditoriali e spesso digitalmente anziani. Generalmente, durante il percorso formativo, non si è stimolati ad un’attività di conoscenza delle proprie ambizioni, desideri, capacità e sviluppare le proprie potenzialità per avviare opportunità di business e autoimpiego. Certo la buona intuizione è molto importante , ma non basta per rendere vincente un’impresa: bisogna articolarla, strutturarla, adattarla e costruirla.

Oggi vi sono molti strumenti di supporto per aiutare la creazione di una business idea, la costituzione di start-up, laboratori d’accelerazione che, grazie anche alle infinite possibilità offerte dalla rete, permettono attività di mentoring e tutorial a distanza anche di grandissimo valore. A questo si aggiunge l’opportunità di partecipare a network di sostegno dove trovare consigli, suggerimenti, condivisione delle proprie paure e aiuto per superare le criticità. Vorrei aggiungere che le donne sono sempre molto generose anche nell’informazione e quindi per loro la rete è uno strumento efficace!

Esistono anche programmi governativi di sostegno come il Fondo di garanzia per le PMI, specifici bandi volti a finanziare le start-up innovative e numerosi interventi regionali per la promozione, BIC o Istituti bancari che offrono assistenza oltre a finanziamenti».

Dunque, l’impresa è (anche) donna, un mondo pieno di opportunità che bisogna saper cogliere e valorizzare. Le donne sono propense a fare impresa, ma quello di cui hanno bisogno prima di tutto è la fiducia verso se stesse e fiducia dagli altri. Fare impresa non è solo una questione meramente economica, fare impresa vuol dire investire se stessi e su se stessi, puntare tutto su un’idea, dare vita ad un progetto sostenibile e sospingere il cambiamento, mentale ancor prima che tecnologico ed economico. Se vogliamo il cambiamento, dobbiamo promuoverlo.

 

L’occasione per parlarne potrebbe esserci il prossimo 18 luglio, nel corso “Progettazione europea e imprenditorialità femminile” organizzata da TIA Formazione Internazionale e dalla Regione Lazio. Per informazioni: http://tiaformazione.org/2015/06/progettazione-europea-e-imprenditorialita-femminile-18-luglio-2015-roma/

 

Piera Feduzi

 

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Piera Feduzi
Nata a Roma, classe 1989. Formazione classica, poi una laurea triennale in Comunicazione pubblica e d'impresa presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza. Iscritta alla magistrale in Professioni dell'editoria e del giornalismo, prosegue il percorso di studi per approfondire quella che è da sempre la sua passione, scrivere. Attualmente internship in Tia Formazione (www.tiaformazione.org). Segue tematiche legate alle politiche europee e all'imprenditorialità.

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