Lidija Ginzburg: la coscienza prigioniera

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Pubblicate le memorie della scrittrice russa sull’assedio di Leningrado, straordinario studio antropologico sulle reazioni dell’uomo in condizioni estreme

«Il disordine di ogni giorno: un piatto con mozziconi di sigaretta, i relitti di questi abissi del caos, la giacca su una macchina da scrivere muta. […] Le cose avevano abbandonato il loro posto, erano come sfocate, i loro contorni si confondevano in una massa indistinta», scrive Lidija Ginzburg in LeningradoMemorie di un assedio, diario di uno dei momenti più tragici nella storia dell’umanità appena pubblicato da Guerini e Associati. Un’opera di straordinaria pregnanza, colma di suggestioni letterarie (l’ombra di Dostoevskij si manifesta sin dal titolo, mentre quella di Tolstoj appare nell’incipit del manoscritto) tanto ampie da travalicare i confini della Russia stessa.

Che la Ginzburg sia autrice di enorme profondità è evidente sin dalla citazione iniziale. Il disgusto di esistere, quella sensazione di scivolare sempre più a fondo nella paura, sembra additare il pensiero di Sartre, mentre l’entropia quale processo di perdita energetica e metafora dell’esistenza stessa evoca addirittura orizzonti postmoderni. Certo la scrittrice odessita si muove in un contesto storico del tutto peculiare. Quello che preme evidenziare è come i suoi meccanismi narrativi appartengano alla letteratura più alta e sofisticata. Si pensi alla seconda parte del libro, intessuta di conversazioni quotidiane che vengono commentate dall’autrice come in un processo esegetico, a formare un discorso ancor più complesso e stimolante.

Il suo punto di vista è del tutto originale. La Ginzburg sceglie di mostrare l’orrore dell’assedio mediante la quotidianità stravolta di un intellettuale, che viene chiamato semplicemente con l’iniziale N. Come in Kafka, l’uomo perde la propria caratterizzazione individuale per affondare nella massa indistinta. La paralisi, l’isolamento e la disumanizzazione sono le coordinate in cui si muove la narrazione, vero e proprio studio antropologico privo di qualsiasi concessione alla retorica di regime; ragione per cui il libro è rimasto sepolto a lungo per riemergere solo nel 1984, in tempi di Perestrojka.

N si interroga continuamente sul proprio ruolo. Attraverso la nebbia della distrofia dedica le sue energie intellettuali, un tempo rivolte verso mete ben più elevate, ad acrobatiche elucubrazioni sul cibo. Unica cura residua dell’intellettuale, la cui vita è ridotta agli elementi primari, è razionalizzare le incombenze domestiche, cercare di ordinare un qualcosa che continuamente rischia di sfuggire di mano. Solo «un ordine stabilito con estrema precisione» può arginare il caos che minaccia l’esistenza, anche se tutto in definitiva è irrimediabilmente perduto.

La grande storia, in realtà, nel libro non compare direttamente. La scrittura si muove ai margini, in maniera elusiva si focalizza sulle piccole cose, che riflettono il dramma umano. In primo luogo le abitazioni, scheletri di case squarciati sulle quali le persone vivono un’esistenza sospesa, in bilico sul baratro del nulla. La rassicurante quotidianità trasformata nel principio dell’incertezza; e ancora i palazzi ornati da una pletora di stucchi, ormai squallidi e corrosi, dai quali sembra stillare un’umidità rugginosa. Dalle case alla città il passo è breve. L’agglomerato urbano come un corpo immenso che lotta e soffre, estremo baluardo contro il nemico, un nemico invisibile che in realtà non viene quasi mai nominato.

Le strisce di carta incollate ai vetri per impedirne la rottura causata dai bombardamenti, i bordi irregolari come un presagio di morte. Le assi a coprire le finestre, a volte inchiodate in un simbolismo funebre che preclude ogni speranza di uscire da quel luogo che è ormai come una tomba per i suoi abitanti. Il suono della sirena d’allarme, la luce dei pochi tram a squarciare l’oscurità altrimenti impenetrabile, tutto concorre a delineare la geografia di un luogo ostile, inabitabile. La meccanica ritualità della discesa nei rifugi a esorcizzare la morte. Una morte che: «può essere rimossa per la semplice ragione che è inaccessibile all’esperienza». Allora può accadere di sentire le ragazze dal parrucchiere chiacchierare fra le deflagrazioni della contraerea, mentre un artista di particolare talento è assalito dal terrore per eccesso di immaginazione. La paura, in quanto emozione, appare soggetta ai capricci propri delle emozioni stesse. Ancora una volta la Ginzburg si rivela raffinata psicologa e profonda conoscitrice dell’animo umano.

Lo sfinimento, la lotta incessante contro la paura finisce per attenuarla. Non si ha più la forza per opporvisi, e allora si desidera solo mangiare e dormire; le necessità dell’uomo ridotte al livello primario. L’uomo dell’estate del ’42 è ormai esausto e logoro. La volontà lo ha abbandonato. L’abitudine, l’assuefazione al dolore lo rende insensibile.

E poi c’è il corpo, con le sue esigenze insopprimibili, quel corpo che vorrebbe cadere nell’abisso, e invece è costretto ad andare avanti. L’assillo della fame è onnipresente; al mattino ci si sveglia presto perché si ha fame, o si teme di averla. Si va alla mensa per il pranzo nonostante i bombardamenti, come nella Sarajevo assediata si usciva di casa nonostante i cecchini. La paura della fame diventa un’ossessione. Si consuma il poco cibo a disposizione senza riuscire a essere sazi. In definitiva il pericolo delle bombe è meno probabile della morte per distrofia.

La gelida ritualità delle code per il cibo, il sistema delle tessere che sembra architettato per affamare le persone. 125 grammi giornalieri, una razione insufficiente per sopravvivere. In questo contesto la morte di un familiare, con tutto il suo carico d’orrore, permette di usare i suoi tagliandi sino alla fine del mese. Anche questo rientra nella lotta per la sopravvivenza. La coda richiede un terribile spreco di energia. Anche quando questa è inutile, perché la merce sul bancone si esaurisce in fretta senza poter accontentare tutti i presenti. L’ansia di giungere alla fine logora in maniera ineluttabile. La critica per la gestione dell’emergenza traspare in molte pagine. L’evacuazione tardiva dei civili, il sistema disumano che annienta definitivamente l’individuo.

L’immagine del cerchio domina la narrazione, insinuandosi nelle sue strutture narrative, sorreggendone l’impalcatura: il cerchio simbolo della coscienza prigioniera, di un assedio che non si riesce a spezzare, o non si vuole infrangere per paura di essere giudicati dei codardi, pronti ad abbandonare i propri cari al loro infausto destino. Correre in circolo da una mensa all’altra, da un luogo all’altro senza via di scampo, è un supplizio di Tantalo. Il cerchio quale ritualità insensata scandita dal regolare procedere della giornata, dai gesti sempre uguali e vani.

La conversazione diviene un processo liberatorio. Le forze ci abbandonano, eppure bisogna parlare, riempire il tempo che rimane. La seconda parte del libro riporta un intricato intreccio di dialoghi il cui sottotesto è la morte. Nonostante sia uscita da un terribile periodo di distrofia alimentare, una donna prosegue nel proprio caparbio approfondimento della letteratura del XVIII secolo. Seguitare a lavorare come in tempo di pace la innalza a un livello superiore. «Dopo aver parlato di massimi sistemi si piomba nell’abisso della mensa». Faccende intellettuali e quotidiane si mescolano fra loro. Un’altra voce afferma: «ci hanno esortato a vivere per un radioso avvenire e adesso ci tocca parlare di questioni materiali». Su tutte il cibo, la quantità di  kaša necessaria alla sopravvivenza. Perché «la nostra non è vita, ma una morte prolungata».

Il tempo appare fuor di sesto, per usare un’espressione che ricorda Philip Dick, il presente «effimero, inafferrabile», pregno di un vuoto incolmabile, condizione che si cerca di riempire con la parola, con la conversazione, tanto quella futile quanto quella colma di significato. Ecco dunque il senso della narrazione. Non solo alimentare la memoria, ma occupare uno spazio altrimenti vuoto di senso e per questo terrifico. Il libro è una  risposta a quella macchina da scrivere muta che appare nella citazione iniziale, a quella scrittura sulla cui effettiva utilità l’intellettuale si interroga nella prima parte del volume.

Allora la domanda è: «come spezzare il cerchio», come uscire dalla prigione della nostra coscienza? «Chi scrive, che lo voglia o no, entra in dialogo con il mondo esterno. E anche quando chi ha scritto muore, ciò che è stato scritto rimane, senza bisogno di autorizzazioni». La risposta della Ginzburg è allora nell’atto stesso della scrittura, in quel salvare almeno qualcosa dal profondo abisso del tempo perduto.

 

Riccardo Cenci

Foto © Wikipedia (Lvovaru:Музей русской водки, la copertina del libro, Commons Ria Novosti, Lidija Ginzburg)

 

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Lidjia Ginzburg

Leningrado

Memorie di un assedio

Guerini e Associati

Traduzione e cura di Francesca Gori

pg. 192 – € 16,00

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Riccardo Cenci
Riccardo Cenci. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne ed in Lettere presso l’Università La Sapienza. Giornalista pubblicista, ha iniziato come critico nel campo della musica classica, per estendere in seguito la propria attività all’intero ambito culturale. Ha collaborato con numerosi quotidiani, periodici, radio e siti web. All’intensa attività giornalistica ha affiancato quella di docente e di scrittore. Ha pubblicato vari libri (raccolte di racconti e romanzi). Attualmente lavora come Dirigente presso l’Enpam.

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