Nick Cave in concerto: il lato oscuro del rock

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Il cantautore australiano, accompagnato dai fidi Bad Seeds, esalta il Palalottomatica nell’unica data romana del primo tour dopo la morte del figlio Arthur

L’attrazione fatale nei confronti di forze distruttive sembra aver segnato lo straordinario percorso artistico di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds. Il tentativo di scrollarsi di dosso l’etichetta dark, che pure gli si addice perfettamente, appare vano perché continuamente minacciato da una zona d’ombra nella quale annega la sua anima. Da qui i toni profetici della sua musica, il continuo oscillare fra una pulsione autodistruttiva e un’ansia disperata di redenzione, che lo avvicina a tanti personaggi della letteratura russa, in particolare legati all’immaginario di Dostoevskij. Eppure Cave viene dall’Australia, terra certamente molto diversa dalla Russia, alla quale l’accomunano gli spazi immensi e vuoti, luoghi d’elezione per lo struggersi di anime dolenti.

Nick Cave è tornato a esibirsi di fronte al pubblico dopo una tragedia immensa. Nel 2015 il figlio Arthur è morto precipitando da una scogliera, la mente annebbiata da sostanze allucinogene, vittima di quella fascinazione per gli abissi subita anche dall’oscuro genitore. Sempre pericoloso è voler legare la vicenda biografica con gli esiti artistici, eppure è innegabile che l’ultimo disco del bardo di Warracknabeal sia figlio di quella vicenda dolorosa e traumatica. Molti hanno gridato al capolavoro riguardo Skeleton tree (e anche chi scrive condivide in gran parte questa opinione), mentre altri ne hanno stigmatizzato i toni mesti ed eccessivamente astratti nella loro volontà di sublimare un trauma del tutto personale.

Per sgomberare subito il campo da possibili equivoci, diciamo che l’esibizione al Palalottomatica di Roma rappresenta quanto di meglio l’attuale panorama rock possa offrire. Il concerto è percorso da un’ansia febbricitante, da un’alternanza di stati d’animo contrastanti che ha pochi eguali. Cave è in forma come non mai, la sua personalità debordante squarcia le brume di una desolazione personale che minacciava di inghiottirlo per sempre.

Anthrocene, Jesus Alone Magneto, altrettanti estratti dall’ultimo lavoro, aprono il sipario su un mondo animato da suoni rarefatti e spettrali. La successiva Higgs Boson Blues è l’esempio di come Cave sappia ancora graffiare in maniera bruciante. Quando la sua voce profonda ripete la frase “listen to my heartbeat”, è come se tutti i cuori palpitassero all’unisono. Il sussurro si tramuta in un grido che satura lo spazio. C’è poi il violino indemoniato di Warren Ellis a dimostrare che i Bad Seeds sono un gruppo capace di sonorità laceranti, quasi espressioniste nelle loro geometrie inclinate e perigliose, costantemente sull’orlo del baratro. From her to eternity Tupelo, estratte dal repertorio più remoto di Cave, lo dimostrano in maniera eclatante. La title track del disco d’esordio dei Bad Seeds diviene un rituale incalzante, un parossismo musicale di enorme impatto sonoro. Gli spazi pervasi da un senso di follia del profondo Sud degli Stati Uniti infestano le sonorità di Tupelo, mentre immagini di  cicloni tropicali esplicitano le atmosfere tempestose della canzone.

Nell’esecuzione dal vivo tutte le canzoni guadagnano in intensità e spessore. Si pensi alla ballata pervasa da  atmosfere psichedeliche di Jubileee street, così come a The ship song, che rimanda alla sconvolgente bellezza dell’album brasiliano The good son, confezionato dopo la tormentata parentesi della tossicodipendenza. Altro momento altissimo Into my arms, con un semplice sipario rosso proiettato sullo schermo e il pianoforte di Cave a delineare toccanti melodie. L’anima del cantautore percepisce forze superiori, pur senza abbandonarsi completamente al misticismo o alla fede religiosa. La fascinazione per il lato oscuro resta presente, seppur relegata in un angolo buio della coscienza.

Girl in amber è ancora un estratto dall’ultimo album, eseguito quasi integralmente. Di seguito I need you, e l’energica Red right hand, a dimostrare come Cave non abbia per nulla abdicato ai toni diabolici e inquietanti degli esordi. Anche The mercy seat, seppure addomesticata nelle sue impennate più selvagge, appare pervasa di disperata energia. Distant sky Skeleton tree ripiegano nuovamente sul mondo poetico e malinconico dell’ultima fase.

Quando Cave rientra sul palco è deciso a mettere in scena un vero e proprio rito collettivo. Lo aveva già fatto durante il bellissimo concerto all’Auditorium Parco della Musica nel 2013. A dire la verità, Cave non è certo nuovo a tali esternazioni, solo che ora sembra spinto da un’urgenza ancora più febbrile. Durante The weeping song fende la folla, costringendo gli addetti alla sicurezza agli straordinari. Mani si protendono verso di lui, anelanti come di fronte a un moderno messia. Parte del pubblico sale sul palco in maniera ordinata, si alza e si siede come fosse ipnotizzata da un misterioso affabulatore. Frutto delle diaboliche ballate omicide è Stagger Lee, che vede le infuocate acrobazie al violino di Ellis, sguardo folle e gestualità incontenibile. Push the sky away si spegne lentamente, come un sospiro sommesso. Il rito si è nuovamente consumato, gli adepti dell’oscuro profeta abbandonano mestamente la sala, quasi increduli di fronte a quella che appare come una vera epifania della sostanza che costituisce la trama invisibile delle nostre vite.

 

Riccardo Cenci

Foto © Musacchio e Ianniello (apertura), Riccardo Cenci

 

 

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Riccardo Cenci
Riccardo Cenci. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne ed in Lettere presso l’Università La Sapienza. Giornalista pubblicista, ha iniziato come critico nel campo della musica classica, per estendere in seguito la propria attività all’intero ambito culturale. Ha collaborato con numerosi quotidiani, periodici, radio e siti web. All’intensa attività giornalistica ha affiancato quella di docente e di scrittore. Ha pubblicato vari libri (raccolte di racconti e romanzi). Attualmente lavora come Dirigente presso l’Enpam.

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