Perché la “polveriera balcanica” rischia di esplodere di nuovo

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Il riacutizzarsi delle tensioni in Bosnia tra serbi e musulmani chiama l’Unione europea ad un ruolo pacificatore da potenza globale, non come nel ’91-’92

L’appello lanciato all’Ue per un allargamento ai Balcani occidentali, quale unico strumento oggi in grado di garantire pace all’Europa, non è stata una dichiarazione di circostanza del presidente Sergio Mattarella: da Sofia, dove si trovava a metà settembre per un incontro con il suo omologo bulgaro Rosen Plevneliev, il Capo dello Stato ha messo il dito in una ferita mai rimarginata, che rischia di infettarsi nuovamente e provocare una setticemia all’intero Vecchio Continente.

La “polveriera balcanica” si sta saturando per la terza volta in poco più di cento anni. Anni durante i quali la diplomazia internazionale non è stata mai in grado di gestire le questioni etnico-territoriali che avevano portato allo scoppio della Prima Guerra mondiale e che la successiva repentina caduta degli imperi Austro-Ungarico e Ottomano avevano lasciato in eredità. La catastrofe delle guerre del 1991-99 ha lasciato nella ex Jugoslavia un enorme cumulo di macerie: quelle materiali sono state rimosse, ma quelle politiche sono ancora lì e la Comunità internazionale non pare al momento interessata ad eliminarle, forse perché non sa neppure come fare. A dispetto della cosiddetta Jugosfera, ovvero quella serie di relazioni commerciali nate tra le ex repubbliche jugoslave, la diffidenza tra la Serbia da un lato e la Croazia, la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo dall’altro regna sovrana.

A Zagabria non fanno mistero di non gradire il percorso di avvicinamento all’Ue avviato dal premier serbo Alexandar Vucic, la cui svolta moderata è avversata sia in patria dai nazionalisti che in Croazia, dove l’influenza dei nostalgici degli ustascia fascisti è sempre forte sul partito di governo HDZ, recente vincitore delle elezioni. In Kosovo, nonostante i buoni propositi di pacificazione espressi dall’ex capo dell’Uçk e ora presidente Hashim Taçi, gli assalti degli ultranazionalisti di etnia albanese alle chiese serbo-ortodosse non accennano a placarsi, come pure i loro agguati contro la minoranza serba, ormai relegata in una specie di riserva indiana, in un Paese che ad oggi vive nel limbo tra il mancato riconoscimento internazionale e una mai sopita aspirazione ad unificarsi con l’Albania, prossimo membro dell’Unione europea.

milorad_dodikE giusto per restare in tema, la recente notizia dell’accoglimento da parte del Consiglio europeo della domanda di adesione all’Ue presentata dalla Bosnia-Erzegovina è stata già superata da quella, più preoccupante, del plebiscito ricevuto dalla proposta della Repubblica serba di Bosnia (che assieme alla Federazione Bosniaco-Croata compone il Paese balcanico) di continuare a celebrare la “Festa dell’entità serba” il 9 gennaio di ogni anno, a ricordo della proclamazione d’indipendenza del 1992 ad opera di Radovan Karadzic, ora in carcere per crimini di guerra: il 99,8% dei votanti (circa il 60% degli aventi diritto) ha detto sì al referendum promosso dal leader serbo-bosniaco Milorad Dodik (foto), che la Corte Suprema bosniaca ha già bocciato come illegittimo. Un avvenimento che non depone a favore della distensione tra due etnie che a distanza di più di vent’anni dalla fine della guerra ancora si guardano in cagnesco: Dodik cavalca il crescente malcontento dei serbi contro il governo “islamico” di Sarajevo, sostenuto dai bosniaci musulmani e dai croato-bosniaci, che a sua volta minaccia un’azione di forza contro la Repubblica Srpska per reprimere velleità autonomiste.

Un deja-vu che nell’ex Jugoslavia riporta a un drammatico prologo di tragici eventi vecchi di venticinque anni, con la significativa differenza che stavolta, rispetto ad allora, nella polveriera balcanica ci è entrata anche la Russia: Vladimir Putin ha infatti riconosciuto il pieno diritto dei serbo-bosniaci a tenere quel referendum, compiendo un inatteso strappo con il governo di Belgrado (storicamente vicino a Mosca) che invece aveva preso le distanze dalla decisione di Dodik. Una posizione, quella del Cremlino, che conferma l’intenzione russa di non lasciare di nuovo i Balcani in mano alla Nato: le tensioni politiche degli scorsi mesi in Montenegro (prossimo all’ingresso nell’Alleanza Atlantica) e il sostegno ricevuto da Putin in Serbia, in particolare da schieramenti ultranazionalisti e vicini alla Chiesa ortodossa, mostrano che oggi la Russia punta ad avere nell’area un ruolo tutt’altro che marginale.

Islamic BankSenza poi considerare il fatto che all’interno della polveriera balcanica s’è inserito anche un altro elemento che rischia di far saltare tutto per aria: l’islam radicale. La Bosnia, che già durante la guerra civile potè beneficiare del consistente aiuto militare messo a disposizione dalle monarchie wahabite, oggi è terreno fertile per capitali provenienti da Arabia Saudita, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, attratti nel Paese anche per la presenza della Bosna Bank International, fondata nel 2000 quale prima banca europea ad operare secondo i principi della finanza islamica. E proprio questa inedita presenza economica musulmana lascia temere che i capitali arabi altro non siano che un cavallo di Troia contenente una politica d’islamizzazione radicale programmata dagli emirati del Golfo. Non sarebbe la prima volta.

Ferma fuori alla polveriera balcanica c’è l’Unione europea, che sta vivendo uno dei momenti più critici della sua storia. Nonostante ciò, Bruxelles non deve commettere il grave errore di sottovalutare gli eventi: vero è che i dossier (immigrazione, Brexit, politiche di stabilità, Ucraina) nei palazzi comunitari si stanno accumulando giorno dopo giorno, ma se l’Ue ha tra le sue priorità quello di diventare potenza globale, ora è il momento di dimostrarlo. I Balcani non possono essere lasciati al loro destino, come successe nel 1991-92. Né i 27 possono permettersi nuovamente il lusso di parteggiare per uno schieramento contro un altro: sarebbe anche peggio.

Se l’Ue non vuole essere travolta da un’esplosione che stavolta potrebbe esserle fatale, deve ripartire dalle parole del presidente Mattarella: serve un allargamento nei Balcani e serve agire in fretta. Solo tenendo sotto la bandiera comunitaria serbi, bosniaci, croati e albanesi la pace, il dialogo e la stabilità potrebbero avere qualche chance in più. Ma il problema è che le troppe diversità di vedute rendono i 27 molto lenti a prendere le decisioni importanti. Lenta non è invece la guerra, che può scoppiare per colpa di una banale scintilla.

Alessandro Ronga
Foto © European Union / Wikicommons – M.Evstafiev

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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