Quello che Trump non ha compreso della crisi in Corea

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Manifesto di propaganda in Corea del Nord

Dal ruolo cinese alle conseguenze geopolitiche di un regime change a Pyongyang, fino al nazionalismo di Kim: ecco i fattori che sfuggono al Pentagono

Resosi conto delle difficoltà che un’azione unilaterale contro la Corea del Nord comporterebbe, Donald Trump è alla spasmodica ricerca di una potenza con cui condividere la gestione della vicenda nucleare che tiene col fiato sospeso l’Estremo Oriente, e non solo. Ad aprile aveva provato a coinvolgere la Cina, in occasione della visita in Florida del suo omologo Xi Jinping, e in quell’occasione aveva anche mostrato i muscoli in Siria, a indicare come gli Usa, se avessero voluto, avrebbero potuto riservare lo stesso trattamento anche a Pyongyang. Chiaramente un bluff, a cui Xi non aveva abboccato. Il mese successivo era stata la volta della Russia, dopo che un missile lanciato dal regime di Kim Jong-un si era inabissato a largo di Vladivostok: «Fossi nei panni del presidente Putin, mi preoccuperei», aveva dichiarato attraverso un comunicato ufficiale della Casa Bianca, sperando di trovare sponda nel Cremlino, che però si limitò solo a condannare il lancio. Ad inizio estate ci ha riprovato con la Cina, attraverso parole («Sono molto deluso dal comportamento cinese», riferendosi all’immobilismo di Pechino sulla questione coreana) volte a toccare le corde dell’orgoglio di una nazione che rivendica lo status di potenza regionale.

A dirla tutta, la Cina, al di là dei suoi rapporti economici con il turbolento vicino, non ha un particolare ascendente politico su Kim Jong-un e lo dimostra l’annosa vicenda del programma nucleare nordcoreano: Pechino ha più volte presenziato ai cosiddetti tavoli diplomatici sulla denuclearizzazione della Penisola, in particolar modo durante l’Amministrazione Obama, ma il risultato è stato in tutti i casi zero. Non per colpa del governo cinese, quanto per un atteggiamento per nulla costruttivo da parte di quello della Corea del Nord. Vero è che Pechino mai si è messa di particolare impegno a fugare la convinzione generale di poter fare pressioni su Kim Jong-un, ma da qui ad affermare, come fa Trump, che si sia volutamente tirata fuori dai colloqui per dissuadere la Corea del Nord dal dotarsi di missili nucleari ce ne corre. Piuttosto, l’equivoco americano sul ruolo cinese nella vicenda è emblematico di come l’attuale Amministrazione americana abbia le idee alquanto confuse su quanto sta accadendo a nord del 38° Parallelo. Inoltre, nel loro approccio indeciso alla crisi, la Casa Bianca e il Pentagono stanno sottovalutando in particolare altre tre criticità insite nello scenario.

Kim Jong-unLa prima è che l’esercito nordcoreano, se da un lato sta ancora testando i suoi ICBM a lungo raggio, dall’altro può montare testate atomiche, chimiche e batteriologiche su missili a medio-raggio dislocati su rampe in grotte a ridosso del confine tra le due Coree: ciò significa che un attacco preventivo statunitense a queste installazioni, perfino con le superbombe MOAB utilizzate in Afghanistan, non mette al sicuro la Corea del Sud e il Giappone da una rappresaglia di Pyongyang. Basterebbe che uno solo dei missili nordcoreani piombasse su Seoul o su Tokyo per provocare un’apocalisse. La seconda è che se a seguito di un’azione militare statunitense e sudcoreana il regime di Kim Jong-un dovesse collassare, la Corea del Nord verrebbe occupata dalle truppe di Seoul assieme a quelle americane, perdendo quel ruolo finora avuto di “Stato-cuscinetto” tra Russia e Cina da una parte e Corea del Sud e Giappone dall’altra: di fatto, russi e soprattutto cinesi si ritroverebbero ai propri confini forze armate USA e loro alleati. E ciò, quando in Estremo Oriente già sono forti le tensioni tra Pechino e Washington sul Mar Cinese Meridionale e tra Mosca e Tokyo per le Isole Curili, significherebbe buttare altra benzina sul fuoco: per questo motivo Putin e Xi Jinping si trovano concordi da mesi su di una posizione comune contro una soluzione militare e a favore di una ripresa delle trattative tra Washington e Pyongyang.

Kim Il-sung nel 1946Ma la terza criticità, la meno considerata dai policy makers americani, è quella più in grado di condizionare gli eventi in caso di guerra: si tratta della Juche, l’ideologia fondante il regime nordcoreano, che interpreta il socialismo reale in una chiave mistico-patriottica, tanto da attribuire a Kim Il-sung (foto a sinistra), padre della Patria e nonno dell’attuale leader, un ruolo simil-divino analogo a quello del Tenno, l’Imperatore del Giappone negli anni antecedenti la Seconda Guerra mondiale. La Juche colloca infatti la Corea del Nord molto più vicina al nazionalismo nipponico d’anteguerra che allo stalinismo, dal quale Kim Il-sung aveva iniziato ad allontanarsi con un lento strappo ideologico già dal 1948, quando eliminò dal Partito gli esponenti più fedeli a Stalin per sostituirli con ex collaborazionisti dei giapponesi: nei decenni precedenti, in cui la penisola coreana fu sotto il dominio dell’Impero del Sol Levante, costoro avevano imparato bene a muovere le leve del Potere e guadagnato una conseguente capacità di controllo del territorio, che nei primi anni di vita della Corea comunista faceva molto comodo a Kim Il-sung per consolidare il suo potere assoluto. Nonostante nei trentacinque anni di occupazione fossero stati indottrinati da Tokyo in chiave anticomunista e antioccidentale, gli ex burocrati dei giapponesi furono riciclati a funzionari della neonata Repubblica Popolare di Corea, influenzando con i loro retaggi di antiamericanismo e ultranazionalismo lo stesso percorso ideologico della Juche, ufficialmente proclamata da Kim nel 1955.

Oggi la Juche gode ancora di totale consenso e non sembra affatto scalfita dall’usura del tempo: il regime, attraverso radio e TV di Stato, continua a indottrinare il popolo con dichiarazioni in cui si sottolinea la palese supremazia dei nordcoreani nei confronti degli altri popoli e soprattutto degli americani, che nei manifesti di propaganda vengono mostrati come banditi dediti alla violenza su donne e bambini, dal corpo lercio e sempre di pelle scura, a cui viene puntualmente contrapposta l’immagine pulita, sorridente e rassicurante di un soldato dell’Armata del Popolo nordcoreana. Proprio per questo motivo, se gli strateghi di Trump hanno inserito nel menù l’opzione-guerra alla Corea del Nord, c’è da sperare abbiano anche calcolato il rischio di dover fronteggiare un’accanita resistenza di un esercito certo male armato, ma profondamente intriso di odio verso l’America. Un regime change a Pyongyang obbligherebbe gli Usa ad una lunga ed estenuante conquista “spiaggia per spiaggia”: scenario molto simile a quello della guerra nel Pacifico contro il Giappone di settantacinque anni fa, quando l’avanzata delle forze americane nell’Impero venne rallentata dalla granitica opposizione dei soldati giapponesi, sostenuta dalla loro incrollabile fede nell’Imperatore. Per la Casa Bianca significherebbe costi elevati in termini di spese militari e vite umane: un fattore che certo non piacerebbe all’elettorato di Trump.

 

Alessandro Ronga
Foto © Wikicommons

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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