Via alle trattative per la Brexit dal 29 marzo

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I negoziati pronti a partire. Ma rimangono diversi punti controversi che rischiano di accendere lo scontro anche all’interno dello stesso Regno Unito

Dopo l’esito del referendum del 23 giugno 2016, la caduta del governo Cameron e altre novità più o meno importanti per il Regno Unito di questi ultimi mesi, che non hanno di certo allietato i sudditi di Sua Maestà, alla fine è arrivata l’indicazione del giorno “x” in cui partirà la richiesta ufficiale della Brexit. Dunque il 29 marzo 2017, 44 anni dopo il suo ingresso (osteggiato fino alla morte dal generale Charles De Gaulle) nell’allora Comunità economica europea, si procederà all’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona e da allora si apriranno i negoziati per lo storico “divorzio” dall’Unione europea. I lavori dureranno due anni, salvo proroghe che andranno concesse all’unanimità da tutti i 27 membri restanti nell’Unione

L’annuncio è stato dato ieri dal governo britannico che si è dichiarato pronto fin da subito (nonostante il lungo travaglio post referendum), come del resto anche i restanti Ventisette Stati membri, all’avvio delle trattative. La premier Theresa May si prepara così all’hard Brexit, “negoziare con forza”, ma nonostante la sua intraprendenza le prospettive future di ciò che si va a iniziare sono ricche d’incognite. Si tratta, infatti, per tutti di un processo nuovo: mai prima d’ora governanti e funzionari d’Europa hanno dovuto affrontare l’uscita di uno Stato membro.

All’incertezza si cerca di rispondere, da entrambe le parti, con la prontezza organizzativa. Nell’annuncio di Downing Street si spiega che è stato l’ambasciatore britannico a Bruxelles, Sir Tim Barrow, ad informare l’ufficio del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, della data scelta dalla May. L’iter ora prevede la notifica ufficiale all’Ue tramite una lettera firmata dal primo ministro con la quale si dichiara l’intenzione della Gran Bretagna di uscire dall’Unione avviando quindi il negoziato della durata di due anni. Lettera che stando ai commentatori politici conterrà riassunti i punti più importanti del piano sulla Brexit già presentato dalla premier, che prevede, fra l’altro, l’uscita anche dal mercato unico europeo, la ricerca di un accordo commerciale di libero scambio e di garanzie per i residenti Ue nel Regno Unito e, secondo un principio di reciprocità, per i britannici che si sono trasferiti “nel continente”.

La leader Tory, che ha intrapreso oggi un tour per tentare di colmare le divisioni con le altre “nazioni” del Regno, in particolare con la Scozia di Nicola Sturgeon, pronta al secondo referendum sull’indipendenza, ma questa volta con l’appoggio dei vertici dell’Ue (perché questa volta la secessione vorrebbe dire rimanere nell’Unione) come contromisura rispetto ad una ‘hard’ Brexit, è decisa a “negoziare con forza” per ottenere il migliore accordo possibile per tutto il Paese. Un annuncio piuttosto conciliante è stato fatto dal ministro per la Brexit, David Davis. «Siamo all’inizio del più importante negoziato per il Regno Unito nell’arco di una generazione» – ha dichiarato – «per iniziare una nuova partnership tra la Gran Bretagna e i nostri amici e alleati nell’Unione europea».

A Bruxelles, intanto, sembra tutto pronto. Tusk ha confermato con un messaggio su Twitter che «entro 48 ore» dall’invocazione dell’art.50 presenterà ai 27 la bozza delle linee guida per il negoziato. Ma devono passare almeno due mesi per vedere in campo i due grandi protagonisti della sfida: Davis da un lato e, per l’Ue, il francese Michel Barnier. Tante le incognite da affrontare. In patria May deve gestire, come suddetto, i rapporti con Sturgeon, intenzionata a tirare dritto sul voto per la secessione, che il governo centrale per il momento non ha
nessuna intenzione di concedere. Non mancano le critiche delle opposizioni di Westminster rispetto ad un piano della Brexit piuttosto generico, ma non preoccupano più di tanto il primo ministro che in un sondaggio di Icm per il Guardian vede il suo partito conservatore svettare al 45% contro il 26% del Labour.

David Davis

Se l’economia del Regno per ora ha risposto anche bene al dopo referendum, nonostante le tante voci allarmistiche, è però da vedere cosa accadrà durante i negoziati, in momenti cruciali come l’uscita dal mercato unico e la partita dell’accordo per il libero scambio. Dopo il referendum del 23 giugno, l’inflazione è salita, toccando l’1,8% a gennaio, il massimo negli ultimi due anni e mezzo. Ma allo stesso tempo la disoccupazione è scesa al 4,7%, ai minimi storici, mentre il Pil 2017 è stato rivisto al rialzo, dall’1,4% al 2%. La divisa britannica si è indebolita, ma non è crollata. Rispetto al periodo pre-referendum ha perso il 15% sul dollaro e il 10% sull’euro. E oltretutto, anche il “conto” finale dell’operazione rischia di esasperare gli animi dei negoziatori: ben 60 miliardi di euro che Bruxelles si aspetta da Londra per gli impegni di spesa già presi in passato.

 

Eachna O’Byrne

Foto © BBC

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