Corte Ue: nuovi proprietari non responsabili dell’inquinamento dei terreni

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A loro carico gli Stati membri sono liberi di prevedere, allorché tali misure sono adottate dalle autorità, una responsabilità solo patrimoniale

La normativa italiana, che non impone misure di prevenzione e di riparazione a carico dei proprietari non responsabili dell’inquinamento dei loro terreni, è compatibile con il diritto dell’Unione: è quello che ha sentenziato la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGE) nella causa C-534/13 dei giorni scorsi, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e a. /Fipa Group Srl e a. Come sempre, il rinvio pregiudiziale che consente ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, d’interpellare la CGE in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione, non risolve la controversia nazionale. Spetta ora al giudice italiano risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.

In base alla direttiva sulla responsabilità ambientale (2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale), l’operatore che gestisce un sito deve, in linea di principio, sopportare i costi delle misure di prevenzione e di riparazione adottate in risposta al verificarsi di un danno ambientale nel sito. Tali costi non sono a suo carico se egli può provare che il danno è stato causato da un terzo. La direttiva consente comunque agli Stati membri di adottare norme più severe.

CGETra il 2006 e il 2001, le società Tws Automation, Ivan e Fipa Group sono divenute proprietarie di diversi terreni situati nella provincia di Massa Carrara, in Toscana. Detti terreni erano gravemente contaminati da sostanze chimiche in seguito alle attività economiche svolte dai precedenti proprietari, appartenenti al gruppo industriale Montedison, i quali producevano in tali siti insetticidi e diserbanti. Ancorché i nuovi proprietari non fossero autori della contaminazione, le autorità italiane hanno ordinato loro di realizzare una barriera idraulica di emungimento per la protezione della nappa freatica.

Il Consiglio di Stato, adito in appello con ricorsi avverso le corrispondenti decisioni amministrative, ha constatato che la legislazione italiana non consente di imporre al proprietario non responsabile della contaminazione la realizzazione di misure di prevenzione e di riparazione e limita la sua responsabilità patrimoniale al valore del suo terreno. Il Consiglio di Stato ha richiesto perciò alla Corte di Giustizia se tali norme nazionali fossero compatibili con il principio «chi inquina paga» cui dà attuazione la direttiva.

curiaNella sua sentenza la Corte risponde che la normativa italiana è conforme alla direttiva. Per giungere a tale conclusione la Corte ha ricordato la costante giurisprudenza in base alla quale il principio «chi inquina paga» (articolo 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea – TFUE), si rivolge all’azione dell’Unione, cosicché tale disposizione non può essere invocata in quanto tale da privati o da autorità amministrative.

La Corte si dedica, quindi, all’analisi dei presupposti della responsabilità ambientale, quali previsti nella direttiva, soffermandosi, in particolare, sulla nozione di “operatore” e sulla necessità della sussistenza di un nesso causale tra l’attività dell’operatore e il danno ambientale. A tal proposito, la Corte precisa che le persone diverse dagli operatori non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva e che, quando non può essere accertato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l’attività dell’operatore, tale situazione non rientra nel diritto dell’Unione, bensì nel diritto nazionale.

 

Aphrotiti Papadopoulos

Foto © Corte di Giustizia dell’Unione europea

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