L’infopandemia: il linguaggio confuso al tempo del Coronavirus

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In epoca di emergenza Covid-19 il lessico e la narrazione giocano un ruolo fondamentale nel costruire un immaginario collettivo e una coscienza comune, con ripercussioni importanti sia nel comportamento quotidiano che in ambito sociale e geopolitico

«L’Infopandemia» – ci spiega Marino D’Amore sociologo della comunicazione e docente dell’università Niccolò Cusano, che abbiamo intervistato in esclusiva per Eurocomunicazione – «é un sovraccarico d’informazioni sul tema prima contrastanti, poi ipertranquillizzanti e infine giustamente allarmanti, stimoli informativi che non chiariscono la questione e soprattutto neutralizzano la legittimità autorevole di ogni fonte: tale contrasto coinvolge e connota le differenti posizioni del mondo scientifico e di quello istituzionale, ma rappresentano anche una divisione interna al primo, dove alcuni medici per settimane hanno smentito altri sulla reale gravità del virus, catalizzando una profonda sfiducia su tutto ciò che viene detto e che prolifera, alimentato e diffuso dalle dinamiche piramidali del web. Senza contare le fake news che in un periodo di allarme sociale e di abbassamento dei filtri razionali di interpretazione trovano terreno fertile. Il Coronavirus rappresenta il grande nemico che il mondo sta affrontando in queste ultime settimane. Una questione che si dirime tra misure mediche emergenziali e decisioni amministrative draconiane. Anche l’uso della terminologia appare confuso, dividendosi, soprattutto mediaticamente, per un periodo tra influenza ed epidemia sino all’ufficializzazione mondiale della pandemia».

Il racconto iconografico dei mass media suggerisce immagini e scenari apocalittici che amplificano il timore e gli effetti dei punti precedenti, ormonati anche dalla serializzazione della comunicazione caratterizzata da continui aggiornamenti che di fatto acuiscono la percezione della gravità della situazione, soprattutto quando aumentano le vittime e i contagiati. La situazione è molto seria e la sua gravità non è calcolabile se non nel breve periodo, tuttavia anche una normalizzazione, non nei contenuti ma nelle sue modalità, della comunicazione giornalistica aiuterebbe a far comprendere meglio la difficile realtà che stiamo vivendo. Una realtà che non viene percepita da tutti con la considerazione che merita, soprattutto per il prezzo alto che si sta pagando in termine di vittime, ad esempio in Lombardia. L’overload informativo agisce per paradigmi di quantità e l’invasività di ogni immagine funziona meglio di qualsiasi altro contenuto, meglio della parola, soprattutto nei social, nell’epoca della convergenza multimediale e della società dell’immagine, provocando o un cieco allarmismo o uno scetticismo lassista, senza una giusta via di mezzo.

Il proliferare delle fake news che anche in questo caso che inficiano il lavoro dei buoni comunicatori e dei divulgatori scientifici: dall’uso delle mascherine sino alla ricerca spasmodica del paziente zero, ormai inutile dato che il virus proviene dalla Cina ma sembra assumere dimensioni autoctone nelle aeree in cui è arrivato, dai rimedi fatti in casa sino alle tisane calde che uccidono il virus. Fattori che hanno aumentato esponenzialmente la destabilizzazione cognitiva, insieme a un individualismo sfrenato che si è palesato in diversi episodi: dal forzo del blocco nella zona rossa per scappare in piena notte fino ai locali pieni di ragazzi che brindano al Coronavirus, passando per la speculazione economica on line sulle mascherine. Una grande, esecrabile irresponsabilità che ha contribuito alla situazione attuale.

«Il passaggio dell’Italia da Paese contagiato a Paese che contagia» – prosegue il Prof. D’Amore «ha mostrato una situazione che ha causato l’isolamento del nostro stato come Paese focolaio con tutte le conseguenze economiche che ne sono derivate e di cui ancora non riusciamo a valutare i contorni. Un isolamento che ha mostrato tutta la sua superficialità: il caso italiano avrebbe dovuto rappresentare un esempio emergenziale da seguire e invece ha fatto abbassare la guardia al resto dell’Europa e del mondo, disegnando poi i contorni della pandemia. Una pandemia combattuta secondo modalità diverse, si pensi all’Inghilterra, che, a prescindere da tutte le valutazioni possibili, negano, quantomeno, una volontà di approccio comune, sinergico, valutato secondo i rispettivi sistemi sanitari. L’illogicità caotica della comunicazione istituzionale che è passata da una situazione epidemica a una normalizzazione forzata fino all’attuale stato pandemico in un tempo relativamente breve: evenienza che ha effettivamente cozzato con la chiusura di alcuni luoghi di aggregazione, ad esempio le scuole e gli stadi, tenendone aperti altri dove il contatto era ugualmente possibile per arrivare poi, ripeto giustamente, alla “chiusura” dell’intera nazione e della sua socialità. Misure necessarie e inderogabili ora, ma qual è stato il risultato della volubilità comunicativa delle istituzioni? Una continua perdita di credibilità che continua a creare sfiducia e tradisce ogni tentativo di controllo. Un’ipercomunicazione sul Coronavirus, come detto, divisa tra aggiornamenti drammatici di decessi, presenzialismi televisivi, teorie complottiste e negazionismi di settore, elementi che alimentano dubbi e cristallizzano una situazione di fluida incertezza baumiana, che però, per ora, non vede cambiamento...».

Oggi la comunicazione che accompagna quotidianamente questa vicenda tuttavia continua ad apparire al contempo abnorme nella sua mole ma confusa e singhiozzante nei suoi contenuti. Oggi piú che mai le parole hanno un peso e sono uno strumento di potere e di responsabilità: il potere di essere ascoltati e guadagnare autorevolezza e la responsabilità di influenzare masse d’individui. La loro incomprensione arricchisce paradossalmente di significato altre manifestazioni umane autoindotte o imposte come, appunto il distanziamento sociale. A una drammatica incognita medica ed emergenziale che si declina secondo dinamiche globalizzanti si oppone una giusta nemesi: l’efficacia speculare di uno strumento strettamente sociale come il distanziamento che ci accompagnerà ancora per tanto tempo.

«Siamo davanti a un’ipercomunicazione sul Coronavirus»conclude il Professore Marino D’Amore«divisa tra aggiornamenti drammatici di decessi, presenzialismi televisivi, teorie complottiste e negazionismi di settore, elementi che alimentano dubbi e cristallizzano una situazione di fluida incertezza, che però, per ora, non vede cambiamento. Le parole hanno un peso e sono uno strumento di potere e di responsabilità: il potere di essere ascoltati e guadagnare autorevolezza e la responsabilità di influenzare masse d’individui. La loro incomprensione arricchisce paradossalmente di significato altre manifestazioni umane autoindotte o imposte come, appunto il distanziamento sociale. La comunicazione deve neutralizzare la frammentazione infopandemica che vive e ricostruirsi in una pancomunicazione che attualizzi una collaborazione sinergica, condivisa e partecipata tra tutti gli attori internazionali. Una comunicazione globalizzata, globalizzante e multidisciplinare, strutturata dal professionismo medico, istituzionale, psicologico e sociologico affinché concepisca e diffonda informazioni condivise guidate da un intento unitario. Una pancomunicazione che intacchi un potenziale isolamento e risvegli la voglia di comunità, della normalità di un quotidiano che non conti più vittime ma guardi intere comunità scendere dai balconi e tenersi per mano mentre procedono verso un futuro, faticoso ma indispensabile, di rinascita».

 

Tiziana Ciavardini

Foto © Wikimedia, European Commission, Ispi

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