Mes, la Grecia insegna perché l’Italia sia nel giusto

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L’esperienza ellenica ha dimostrato come il Meccanismo europeo di stabilità sia stato determinante per la morte del Paese

 

Il 21 Dicembre 2023 l’aula della Camera dei deputati, votando no all’articolo 1, ha bocciato la ratifica ed esecuzione dell’Accordo recante modifica del Trattato che istituisce il Mes, Meccanismo europeo di stabilità. I sì sono stati 72, i no 184 e gli astenuti 44. La maggioranza si è divisa con il no di Fratelli d’Italia e Lega ma con l’astensione di Forza Italia e Noi moderati. In disaccordo anche l’opposizione con il sì del Pd e il no del M5s.

Mes è conosciuto anche come “Fondo salva Stati“. Lo scopo di questo strumento è chiaro, almeno dal nome: aiutare i Paesi in difficoltà. Il Mes è veramente uno strumento adeguato di aiuto per le Nazioni che si trovano in difficoltà, oppure gli scettici hanno ragione di opporsi e chiedere almeno una rivisitazione delle condizioni?

Le condizioni per la richiesta

Prima di capire se può essere veramente uno strumento di aiuto o no, vediamo come funziona. Da lì sicuramente molti aspetti saranno più chiari. Il Mes è un fondo, dove tutti gli Stati appartenenti all’Unione europea versano del denaro. Quindi praticamente, nel caso dell’Italia, andrebbe a dare soldi al fondo, per poi chiederli al momento di difficoltà. I Paesi stanno ancora discutendo le condizioni di accesso agli aiuti. Al momento le condizioni sarebbero queste: deficit minore del 3% da almeno 24 mesi; rapporto debito/Pil inferiore al 60% (oppure se non è inferiore al 60%, negli ultimi 24 mesi è sceso di almeno 1/20); non essere sottoposto a procedure di infrazione.

Praticamente deve essere uno Stato solido. Ma se uno Stato chiede aiuto, è perché è in difficoltà, quindi non è detto che abbia questi requisiti.Esm Può anche essere, ma è molto più probabile che se un Paese è in difficoltà e arriva a chiedere gli aiuti del Mes, magari non ha il rapporto debito/PIL <60% né tanto meno un deficit inferiore al 3%. Insomma questo Mes, sembra che proponga di aiutare i Paesi in difficoltà. Purché non lo siano troppo. Un po’ un controsenso. Ecco perché in Italia se ne discute moltissimo, e si è arrivati a dire di no.

Ma il Mes nella sua forma estesa e più rigorosa cosa comporterebbe per un Paese che vi facesse ricorso. Giova, per avvertire dei rischi, ricordare che successe quando la “Troika”, nel 2011, appaltò al Fondo salva-Stati guidato, come oggi, dal tedesco Klaus Regling, l’individuazione delle condizionalità ritenute più efficaci per concedere alla Grecia un pacchetto di aiuti da otto miliardi di euro.

L’esperienza ellenica

A recuperare questo capitolo di storia non entusiasmante del recente passato europeo è stato il quotidiano Italia Oggi, che ha segnalato cosa fu imposto ad Atene per dare via libera al piano di salvataggio. La Grecia barattò il “semaforo verde” agli aiuti con la firma di un accordo che la impegnava a: tagliare del 40% lo stipendio a 30mila dipendenti pubblici messi, di punto in bianco, in temporaneo congedo. Licenziare coloro che tra i 30mila occupati dopo 12 mesi non avessero trovato un lavoro nel settore privato e applicare la stessa cura da cavallo ad altri 120 mila statali. Abolire la tredicesima sulle pensioni e tagliare del 20% le pensioni superiori a 1.200 euro lordi.

I tagli alle pensioni sarebbero continuati anche durante il Governo di sinistra di Alexis Tsipras. Tra il 2010 e il 2018 le pensioni degli anziani greci sono state ridotte fra il 50-60% arrivando a circa 665 euro di media, spesso come unica fonte di sostentamento di interi nuclei familiari in un contesto di crescente disoccupazione. Avviare la privatizzazione degli asset strategici. Dagli aeroporti al porto del Pireo, passando per le utility energetiche e le ferrovie Atene è diventata terra di conquista e svendita per capitali stranieri in cerca di facile rendimento.

Un uomo non sospettabile di euroscetticismo come Massimo D’Alema, in un’intervista a Sky Tg24 del 2015 divenuta molto celebre, ha sottolineato che questo bagno di sangue serviva a sbloccare finanziamenti al Governo di Atene utili a ripagare i debiti col sistema finanziario franco-tedesco accumulati negli anni.

La morte di un Paese

I 250 miliardi di piani di risanamento strutturale, inaugurati dalle condizionalità del Mes, hanno rappresentato il patibolo per l’economia e le prospettive di rinascita della Grecia. Il potere di acquisto in dieci anni (2008-2018) si è ridotto del 28%, la disoccupazione ha sfondato la soglia del 23% e anche il debito pubblico è esploso oltre il 180% del Pil senza che i cittadini greci avessero la prospettiva di un minimo sollievo dall’austerità che ha mandato al tappeto il Paese.

MesLe proiezioni basate sui dati messi in campo dal Mes e dalla Troika, sottolineava nel 2018 Bloomberg in un articolo ripreso da Voci dall’Estero, “assumono un livello di austerità impossibile: la Grecia deve realizzare un avanzo primario di bilancio (al netto degli interessi) del 3,4% del Pil per un decennio, e poi del 2,2% fino all’anno 2060 – qualcosa che nessun Paese dell’area dell’euro con una così precaria storia economica ha mai fatto“. Questo è la conseguenza della firma dell’adesione incondizionata al fondo salva-Stati. Una Caporetto che nessun Paese, oggigiorno, può permettersi.

Affari per gli istituti di credito

Merkel sa bene che i soldi della troika non sono andati alla Grecia ma alle banche tedesche e francesi. Tanto per cominciare, va detto chiaramente che la Grecia c’entra ben poco con la crisi che porta il suo nome. Essa affonda le sue radici nell’architettura del sistema finanziario europeo. Con l’introduzione dell’euro, nel 1999, non sono solo crollati gli spread della Grecia (tanto per i privati quanto per il Governo), ma le banche di tutti i Paesi dell’unione monetaria hanno avuto accesso a quella che di fatto era una valuta estera a bassissimo costo. A fronte di tassi di interesse ultra-bassi e delle varie bolle creditizie che cominciavano ad apparire in vari Paesi dell’unione monetaria, è normale che le banche nazionali abbiano cominciato ad estendere le loro attività in lungo e in largo.

Questo è il motivo per cui gli attivi delle banche europee sono esplosi nella prima decade dell’euro, in particolar modo nei Paesi della periferia. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, allo scoppio della crisi europea, nel 2010, i crediti inesigibili detenuti nella periferia dalle banche francesi e tedesche ammontavano rispettivamente a 465 e 495 miliardi di euro. Solo una piccolissima parte di quelle attività deteriorate era situata in Grecia. E qui sta l’assurdità di tutta questa vicenda: nel 2010 la Grecia rappresentava il 2% del Pil dell’unione monetaria, mentre il disavanzo pubblico greco ammontava al 15% del Pil del Paese, pari allo 0,3% del prodotto interno dell’Eurozona.

Atene vittima del sistema finanziario europeo

Di per sé non rappresentava di certo una minaccia per l’economia europea. Il problema è che i detentori del debito greco – le grandi banche del centro – nel corso del decennio precedente avevano fatto lievitare i loro bilanci al di là di ogni limite. In totale, nel 2010, gli attivi delle banche europee ammontavano al doppio degli attivi delle loro controparti statunitensi. In questa situazione di indebitamento estremo, se la Grecia avesse fatto default, quelle banche avrebbero dovuto liberarsi di un buon numero di titoli sovrani per sanare le perdite. Questo avrebbe scatenato un sell-off sui titoli sovrani che avrebbe rischiato di spazzare via alcuni dei più grandi istituti bancari del continente.

Ilprogramma di salvataggio” della Grecia è servito proprio ad evitare questo scenario: tenendo la Grecia nell’euro e calmierando i tassi greci, si è evitato il sell-off sui titoli sovrani, ma a costo di far salire la disoccupazione greca alle stelle e di distruggere un terzo dell’economia ellenica. Nonostante la Germania si sia vista condonare il proprio debito quattro volte nel corso del ventesimo secolo, non possiamo di certo aspettarci che Angela Merkel ammetta di aver usato i soldi dei contribuenti europei per salvare Deutsche Bank. Lo stesso vale per François Hollande e per altri leader dell’epoca. E si domanda sempre ma nel marzo del 2015 la Grecia si poteva ancora parzialmente salvare. Nonostante tutto. Ma proprio l’allora presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, ha escluso la Grecia dal programma di quantitative easing perché Atene “ha già avuto molto”.

La Bce di Draghi diede il colpo finale

Fu proprio l’allora presidente della Banca centrale europea, infatti, a decretare l’esclusione della Grecia dal programma di quantitative easing perché Atene «ha già avuto molto». Un provvedimento che, se adottato seppur tardivamente, avrebbe certamente evitato il disastroso “terzo memorandum”. Una decisione fondata sull’assunto che quella greca fosse una “crisi incontrollabile” (quando le misure adottate a posteriori hanno dimostrato l’esatto contrario) e che contribuì – sotto la minaccia della cacciata della Grecia dall’Eurozona – a seminare ulteriore panico condito dalla chiusura delle banche e dalle limitazioni ai prelievi bancomat in un Paese già da tempo deliberatamente ricattato e messo in ginocchio con l’unico scopo di accettare supinamente i diktat dei suoi creditori.

E che produsse la definitiva capitolazione di un popolo costretto a subire l’ennesimo scellerato piano disalvataggio” da parte di quelle istituzioni europee che, in cambio, pretesero un’ulteriore ondata di tagli e macelleria sociale in un contesto socioeconomico già devastato da cinque anni di riforme e austerità. Unricattoesercitato con modalità da strozzinaggio simili a quelle utilizzate nel 2011 a danno dell’Italia. Quando, a seguito dell’infruttuosa letterina spedita a Berlusconi, la Bce chiuse i rubinetti bloccando l’acquisto dei nostri Btp e dando così inizio alla folle corsa dei tassi d’interessi (e quindi dello spread) che portò in pochi giorni al Governo Monti.

 

George Labrinopoulos

Foto © RTE, ESM, DW, Bocconi, Greek City Times

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George Labrinopoulos
Sono quasi 52 anni che vivo in Italia, originario di Vitina, nel Peloponneso, Sono nato a Vrilissia, 13 km dal centro di Atene, dove ho vissuto i primi 20 anni della mia vita, finché non sono arrivato a Roma dove ho lavorato come corrispondente per la Grecia e a una Agenzia Onu. Ho cominciato a lavorare in Italia nel '78, come secondo corrispondente di un importante giornale greco. Nel 1980 sono entrato nella stampa estera in Italia, della quale tuttora sono membro effettivo e per la quale negli anni Ottanta ho ricoperto per tre volte la carica di consigliere nel direttivo dell'associazione. Nell'arco di questi anni ho lavorato per vari quotidiani greci, oltre che per un'emittente radiofonica, Da Roma riuscii a portare tra il 1984, fino gli anni Novanta, politici del calibro di Pertini e Cossiga, i primi ministri Andreotti e Craxi, il Papa Giovanni Paolo II, Prodi, e altri uomini politici che attraverso il loro operato scrivevano la storia dell'Italia in quegli anni, poi messi in un libro "L'Italia dei giganti", due anni fa. Sono arrivato in Italia nel 1972, iscritto all'Università per Stranieri in Perugia per imparare la lingua italiana. Sono stato iscritto all'Università di Roma nella facoltà di Lettere e Filosofia indirizzo lingue straniere (inglese). Durante le lezioni il mio professore all'epoca Agostino Lombardo, ci insegnava analisi di testo e di poesia, e gia mi è arrivata la voglia di cominciare di fare il mestiere che dovevo fare nella mia vita. Giornalista...vorrei ricordare che negli anni '70 non c'erano scuole di giornalismo, e il mio mestiere l'ho imparato facendo la gavetta dopo l'Università, ero andato ad Atene e facevo praticantato a un giornale ellenico...erano gli anni del sequestro Moro, e un'agenzia ellenica chiedeva un secondo per l'Italia, e cosi sono tornato come professionista giornalista a Roma

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