Tra Trump e la Merkel scoppia la pace fredda

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Washington e Berlino mai così lontane dal 1945. Divisi sul commercio, gelo su profughi e migranti. Ci mancava solo la stretta di mano mancata…

Fin da subito è apparso fin troppo chiaro che il feeling non c’era. Durante la prima visita di Angela Merkel nella Casa Bianca di Donald Trump anche dai più piccoli gesti si capisce come l’aria sia cambiata. Non che ci si aspettassero baci o abbracci, ma anche solo i sorrisi sono stati talmente tirati da far pensare a un clima di guerra fredda. O, meglio, come abbiamo titolato, di pace fredda. Molto.

A rappresentare nel miglior modo possibile l’incontro l’episodio della stretta di mano apparentemente (ma non troppo) negata nello studio ovale, l’imbarazzo della Merkel nel dire a Trump che i fotografi la richiedevano (l’ovvio, in questi incontri) e lui immobile come chi sa bene quanto quel gesto sarebbe stato risaltato molto più delle parole.

Dunque un faccia a faccia abbastanza teso tra il presidente Usa e la cancelliera tedesca ieri (per voi in Europa, “oggi” ancora quaggiù, ndr) alla Casa Bianca con un contrasto eloquente al momento di parlare del tema immigrazione: «Un privilegio, non un diritto», come ha sottolineato anche con il timbro di voce e il linguaggio del corpo il tycoon, che in passato aveva già definito «catastrofica» la politica di ospitalità della cancelliera verso i rifugiati.

«Dobbiamo proteggere i nostri confini, ma dobbiamo anche guardare ai rifugiati che fuggono dalle guerre e dalla povertà», gli ha replicato lei, che precedentemente aveva criticato il suo primo bando anti-musulmani. E quando il neocomandante in capo degli Stati Uniti ha chiuso la conferenza stampa congiunta con una battuta sostenendo che «forse» lui e la Merkel hanno anche «qualcosa in comune», ossia essere stati intercettati da Obama, è sceso il gelo e la cancelliera è rimasta impassibile.

Tanto più che l’atmosfera era surreale, con Trump che aveva appena suggerito di chiedere lumi alla Fox sulla notizia che la tv aveva diffuso, secondo cui ci sarebbero i servizi segreti britannici dietro alle presunte intercettazioni della Trump Tower ordinate dal precedente presidente Usa. Una notizia che giovedì il suo portavoce Sean Spicer aveva rilanciato e di cui ieri non si è detto pentito, anche se i media inglesi hanno svelato le scuse della Casa Bianca.

Per il resto piccole concessioni reciproche, ma ognuno di fatto resta sulle sue posizioni. Trump che nega di essere un isolazionista («si tratta di una “fake news”») affermando però la necessità di rettificare certi squilibri, la Merkel che riconosce l’esigenza di un «commercio più equo» ma senza negare la globalizzazione, semmai correggendola. Il presidente Usa che ribadisce il suo «forte supporto» alla Nato ma pretende che gli alleati paghino il loro giusto contributo, la cancelliera che annuisce e si fa garante dell’impegno di tutti i partner a lavorare per incrementare il loro contributo alla difesa comune.

Il magnate ha riconosciuto gli sforzi della Germania e della Francia «per risolvere il conflitto in Ucraina, dove idealmente cerchiamo una soluzione pacifica». E la Merkel che ha raccolto subito: «Le relazioni con la Russia devono migliorare, ma prima deve essere risolta la crisi ucraina».

Era difficile che tra due leader così diversi, per stile, idee e valori, scoppiasse subito una luna di miele, nonostante le mezze origini tedesche del presidente. Ma l’incontro, caricato forse di troppe aspettative, quasi dovesse dare il “là” alle future relazioni con l’Europa, è servito comunque a rompere il ghiaccio. «È meglio parlarsi l’uno con l’altro piuttosto che parlare l’uno dell’altro», ha ribadito in conferenza stampa la cancelliera, confermando il suo approccio pragmatico.

I due leader hanno discusso a 360 gradi: Russia, Ucraina, Siria, Medio Oriente, Corea del Nord, Isis. Ma tra i dossier che più stavano a cuore alla Merkel c’era quello commerciale, per il timore della ventilata tassa Usa del 35% sulle importazioni che metterebbe in ginocchio l’export tedesco, per il quale gli Stati Uniti sono il primo mercato. Berlino ha usato dapprima il bastone – la ministra dell’Economia Brigitte Zypries ha minacciato poco prima della visita della cancelliera un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), in base al quale i dazi sulle auto non possono superare il 2,5% – e poi la carota, con la Merkel invece che è volata a Washington per far vedere gli aspetti positivi dei legami con la Germania, che in Usa garantisce 750 mila posti di lavoro, oltre a 1-2 milioni di posti legati al made in Germany, nonché 271 miliardi di euro di investimenti diretti tedeschi (dieci volte quelli americani in Germania).

Ma gli Usa restano preoccupati per il deficit commerciale di 65 miliardi di dollari con la Germania, che Peter Navarro, consigliere commerciale della Casa Bianca, vorrebbe ridurre eludendo i vincoli europei. E sono convinti che Berlino sfrutti l’euro debole per rafforzare il suo export. Sono questi i nodi che Trump e Merkel hanno tentato di sciogliere, sullo sfondo di un G20 finanziario che sembra orientato ad un compromesso sul futuro del commercio e dove il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, secondo alcune fonti, ha fatto un «intervento costruttivo», «conciliante», senza parlare di “border tax”.

Dunque c’è il rischio che 70 anni di politica transatlantica stiano forse per andare definitivamente in soffitta. Un confronto tra alleati costretti a stare assieme per motivi soprattutto di sicurezza ma sospettosi, divisi da troppi interessi. Un rapporto che nei prossimi anni rischia di consumarsi a colpi di dazi, di tariffe, di degenerar in una conflitto commerciale che inevitabilmente coinvolgerebbe l’intera Europa.

Da una parte la Germania che punta ad andare avanti sulla strada della globalizzazione che tanti benefici ha prodotto (seppur rivista e corretta per renderla più sostenibile), dall’altra l’America first di Trump, nemica dei grandi accordi di libero scambio e portatrice di un nuovo protezionismo che piace a molti anche nel Vecchio Continente, già scosso dalla Brexit e dai tanti movimenti populisti che proprio al tycoon guardano con attenzione.

E dire che per decenni gli Stati Uniti sono stati la chiave della ripresa e dello sviluppo dell’Europa dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, a partire dallo storico piano Marshall. E l’allora Germania occidentale è stata la prima a beneficiare delle politiche di Washington, dettate prima di tutto dalla necessità di contenere l’influenza sovietica. E poi, al disfacimento dell’Urss, dal promuovere un allargamento dell’Europa ad est.

Ma sembrano davvero lontani i tempi in cui un presidente come John Fitzgerald Kennedy (correva l’anno 1961) pronunciava quella frase indimenticabile, “Ich bin ein Berliner” (io sono un berlinese) davanti a una folla di cittadini tedeschi che speravano nella riunificazione del loro Paese. Quella riunificazione sostenuta a gran voce da Washington che si tradusse anche nello storico appello di Ronald Reagan nel 1987 all’allora capo dell’Unione sovietica Michail Gorbaciov: «Presidente, tiri giù questo muro».

Oggi nel mirino di Trump c’è soprattutto quell’enorme avanzo commerciale della Germania che fa parlare al presidente americano di «grande ingiustizia» nei confronti degli Usa. Per questo per la nuova Casa Bianca quel surplus va eliminato al più presto. E con tutti i mezzi a disposizione.

 

Klivia Böhm

Foto © CNN, KMOV, CNBC, Sacramento Bee

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