Quale America esce dal referendum su Donald Trump

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Se Biden vuole ricomporre la frattura nella società statunitense, non potrà non tener conto di un “trumpismo” che gode di buona salute

Il risultato di una consultazione referendaria, si sa, assume un significato differente sulla base della distanza percentuale che separa i “Si” dai “No”: tanto maggiore sarà quest’ultima, tanto chi l’ha proposto potrà ritenersi più o meno vincitore. Le presidenziali Usa del 3 novembre scorso sono diventate, per certi versi, un vero e proprio referendum su Donald Trump: e non poteva essere altrimenti, visto che il presidente uscente, dalla gestione dell’emergenza sanitaria al Black Lives Matter, è stato l’oggetto della campagna elettorale dei Democratici più del loro stesso programma. Questo referendum Trump lo ha perso, ma di misura. Non c’è stato il tanto atteso plebiscito di voti per mandarlo via e sancire il fallimento della sua politica. Nessuna “onda blu” si è abbattuta sugli Usa. Joe Biden ha vinto sì, ma in molti Stati si è imposto per un’incollatura.

Salvo clamorosi capovolgimenti giudiziari, Trump dunque a gennaio lascerà la Casa Bianca dopo appena un mandato, come fu per Jimmy Carter nel 1980 e George Bush Sr. nel 1992. Ma diversamente da questi ultimi, che persero la presidenza per via di proposte politiche obsolete se confrontate con quelle dei rispettivi avversari Ronald Reagan e Bill Clinton, Trump perde ma iltrumpismoha dimostrato di godere di buona salute: 70 milioni di voti sono decisamente molti per un progetto politico che doveva essere solo un incidente di percorso e che invece adesso può lanciare un'”Opa politica” sul Partito Repubblicano stesso, quello dove i neocon Bush, Romney e Rubio avevano di fatto boicottato il loro candidato ed escono ora ridimensionati.

Per questo, ritenere la sconfitta di Trump come la contemporanea fine del trumpismo è un errore di valutazione che la nuova Amministrazione Dem non può permettersi di commettere, se davvero vuole ricomporre l’unità del Paese e porre fine a un clima di reciproca demonizzazione dell’avversario, non foss’altro perchè mezzo Paese è d’accordo con le politiche di Trump. Intanto però la prima uscita di Biden da presidente in pectore («Gli Usa rientreranno negli Accordi di Parigi sull’ambiente») lascia presagire che tutto l’edificio politico costruito da The Donald in quattro anni sarà smantellato pezzo pezzo, e ciò non piacerà ai 70 milioni di americani che l’hanno votato e che si sentiranno ancor meno rappresentati dal nuovo inquilino della Casa Bianca.

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Joe BidenVisto l’incipit, c’è da chiedersi se veramente Biden riuscirà, come promette, a ridurre la frattura tra le due anime della società statunitense o se paradossalmente la amplierà. Quello che torna in mano ai Democratici è un Paese profondamente diviso e che si guarda in cagnesco. Lo era già nel 2016, ma oggi le divisioni vanno oltre la canonica separazione tra l’America delle grandi metropoli e quella cosiddetta “profonda”. L’auspicio, visto il clima che si respira al di là dell’Atlantico, è che non prevalga una logica da vae victis. Anche perchè al momento un vero e proprio “vinto” non c’è.

 

Alessandro Ronga

Foto © Wikicommons, Eurocomunicazione

Video © Eurocomunicazione

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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