L’Ue ha la carta per risolvere la crisi in Ucraina

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L'Ue

Integrazione economica con Kiev e neutralità militare: ecco su cosa l’Unione europea deve puntare per evitare una guerra

Allo scontro crescente degli ultimi mesi tra la Nato e la Russia sull’Ucraina, iniziato otto anni fa proprio in questi giorni, l’Ue dal 2014 assiste in una posizione marginale e passiva, quando invece, per ovvi motivi geopolitici, dovrebbe essere il contrario. Anche perché, riportando indietro l’orologio della Storia recente, Bruxelles qualche responsabilità per quanto sta accadendo ce l’ha. Otto anni dopo, l’Ue ha la chance di poter assumere un ruolo centrale negli eventi ai suoi confini orientali: ma prima deve fare tesoro degli errori commessi in passato sulla questione ucraina, per evitare di commetterne ulteriori in futuro.

Quel tumultuoso autunno 2013

Tutto ebbe inizio quando Kiev e Bruxelles trattavano, non senza difficoltà, l’adesione dell’Ucraina all’Area di libero scambio con l’Ue, di fatto un’anticamera all’effettivo ingresso dell’ex repubblica sovietica. Al potere a Kiev c’era Viktor Yanukovic, eletto presidente quasi quattro anni prima con una valanga di voti nelle Regioni orientali (suo feudo e serbatoio elettorale), russofone come lui. Aspetto questo che aveva generato una sorta di diffidenza verso di lui nelle Cancellerie europee: semplicemente perchè di idioma russo, Yanukovic era visto sempre come filorusso e sostanzialmente poco convinto di un percorso europeo dell’Ucraina. Questo errore di approccio dell’Ue fu il primo di tutta la crisi.

Yanukovic non era affatto contrario ad una integrazione commerciale tra Ucraina e Ue. Non perché fosse un europeista convinto, semplicemente perché era un politico cinico e attento soprattutto a non perdersi i consensi e le clientele. L’allora presidente era ben consapevole che sull’Ucraina si concentrava anche l’interesse della Russia (Putin prometteva un trattamento di favore sulla questione dei forti debiti sulle forniture di gas vantati da Mosca, in cambio dell’ingresso nell’Unione economica euroasiatica), e aveva iniziato a trattare su due tavoli separati, con il chiaro intento di ottenere le migliori condizioni sia da Bruxelles che dal Cremlino e quindi scegliere da che parte traghettare il suo Paese.

Il feudo del Donbass

Il problema di Yanukovic, nel round finale delle trattative del 2013, era rappresentato principalmente dal Donbass, suo feudo elettorale e fortemente contrario ad ogni forma di accordo commerciale con l’Europa comunitaria. In un’area in declino industriale dalla fine dell’Urss, le decrepite realtà produttive locali erano sopravvissute fino ad allora solo grazie ad un rapporto simbiotico con la Russia, fatto di import di gas ed energia e di export di carbone e acciaio. Tanto che Putin aveva più volte ammonito Yanukovic che l’ingresso dell’Ucraina nell’Area di Libero scambio con l’Ue avrebbe automaticamente comportato la fine dei rapporti economici privilegiati con Mosca. E una rottura commerciale con i russi avrebbe significato per il Donbass e per la sua gente precipitare ancor di più lungo il crinale della miseria.

Proprio per questo motivo il presidente ucraino aveva vincolato il suo sì all’Ue ad un maxiprestito per ammodernare le attività produttive delle Regioni orientali, per diversificarne la produzione allontanandola dall’unico mercato di sbocco russo, e renderle competitive e in grado di sfidare la concorrenza delle merci che sarebbero arrivate dall’Europa comunitaria. Ma l’enorme linea di credito invocata da Yanukovic, equivalente quasi all’ammontare dei fondi di coesione concessi alla Polonia al momento dell’ingresso nell’Unione europea, venne negata da Bruxelles. Commettendo così un secondo errore, dettato stavolta da scarsa lungimiranza e totale assenza di visione politica.

Miopia politica

Dinanzi a quel credito negato, schiacciato a est e a ovest, Yanukovic aveva risposto proponendo di posticipare l’ingresso dell’Ucraina nell’Area di Libero Scambio, per avere a disposizione più tempo utile a stabilire una nuova roadmap di avvicinamento a Bruxelles, senza però danneggiare i suoi rapporti con la Russia. Ma quel suo temporeggiare fu invece interpretato come l’intento di abbandonare definitivamente i negoziati per allineare la politica ucraina a quella russa.

Fu il terzo grave errore commesso dall’Ue, che, mollando Yanukovic proprio mentre nella capitale ucraina divampava la protesta di Euromaidan, di fatto si tirò inspiegabilmente fuori dalla mischia lasciando il pallino del gioco nelle mani degli Usa, sempre più orientati ad assumere un ruolo di kingmaker, e a spostare la questione da un ambito economico ad uno militare. Tanto che di lì a poco, con la caduta di Yanukovic e l’insediamento a Kiev di un Governo molto più vicino a Washington che a Bruxelles, si sarebbe cominciato a parlare più dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, che del suo avvicinamento all’Unione europea.

L’interesse di Bruxelles?

Ma l’Ue non si poteva e non si può permettere di avere oltre i suoi confini una Russia con cui non dialoga. L’approccio europeo verso Mosca non può essere quello di Washington: è stato (ed è ancora) un errore grave alzare la tensione, come grave sarebbe ritrovarsi di nuovo in una guerra di sanzioni che danneggerebbero ulteriormente le imprese e i suoi cittadini europei.

Le relazioni commerciali tra Ue e Russia sono storicamente più forti e interdipendenti rispetto a quelle tra Usa e Russia: può permettersi l’Ue di deteriorarle ancora? Semplicemente no. Gli eventi attuali sono diretta conseguenza di sbagli passati. E l’Ue da quegli errori deve ripartire. Mai come adesso ha l’obbligo di prendere in mano la crisi e proporre un piano di pace a Russia e Ucraina, che chiuda per sempre il contenzioso iniziato otto anni fa. E soprattutto, deve agire indipendentemente da ciò che si pensi in ambienti Nato e soprattutto Oltreatlantico.

Una via per la pace: il modello austriaco

La soluzione oggi passa per un percorso di integrazione europea di Kiev del quale i Ventisette devono accollarsi il costo, aprendo (come aveva richiesto Yanukovic nel 2013) una corposa linea di credito che consenta al Paese di avviare un processo di ammodernamento del proprio apparato industriale, specie nelle Regioni russofone, a cui vanno concesse maggiori autonomie linguistiche e amministrative. In cambio, l’Ucraina dovrà rinunciare all’ingresso nell’Alleanza Atlantica, e acquisire un ruolo di Statocuscinetto neutrale (come l’Austria dopo la Seconda guerra mondiale) tra i confini Nato e quelli russi, mentre la tutela dei propri sarebbe comunque garantita dal fatto di diventare confini dell’Ue: Putin non andrebbe mai a mettersi militarmente contro la stessa Unione europea, vista l’importanza dei rapporti commerciali tra Mosca e Bruxelles.

Certamente traghettare l’Ucraina nell’Ue avrebbe un prezzo non indifferente per le casse comunitarie già alle prese con il post-pandemia, e del resto fu anche questo approccio meramente economico a spingere Bruxelles nel 2013 a dire no alle richieste di Yanukovic.

Ma adesso, come si sarebbe dovuto fare allora, la questione va affrontata dal punto di vista non solo strettamente pecuniario, ma in un’ottica politica: anche perché sull’altro piatto della bilancia ci sono i costi economici di un’escalation militare che comunque vedrebbe impegnata, anche se indirettamente, la Nato (della quale fanno parte 22 Stati Ue su 27), oltre al prezzo di una inevitabile guerra commerciale con la Russia e, come accade in tutti i conflitti, a quello dell’accoglienza di centinaia di migliaia di profughi che si riverserebbero verso l’Unione. Dinanzi a questa prospettiva, il piatto penderebbe decisamente dalla parte dell’accordo: citando John Kennedy, non sarebbe la miglior soluzione, ma senz’altro meglio di una guerra.

 

Alessandro Ronga

Foto © Wikicommons

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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