Marco Bellocchio, “il più giovane regista italiano”

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Marco Bellocchio

Dal rivoluzionario “Pugni in tasca” al film di denuncia “Rapito” passando attraverso manicomi e rapimento di Aldo Moro

Marco Bellocchio insieme a Liliana Cavani, rappresenta il cinema italiano dei grandi autori in gran parte scomparsi: Ermanno Olmi, il regista artigiano, i fratelli Taviani difensori di un cinema dai valori civili, per arrivare ai padri Fellini, Visconti, Antonioni. Il regista napoletano Paolo Sorrentino, della penultima generazione di cineasti del cinema italiano, lo ha definito in occasione del conferimento del David di Donatello “Il più giovane regista italiano”. È  facile comprenderne le motivazioni: regista della contestazione giovanile, ha attraversato metà del Novecento e il primo ventennio del XXI secolo a evidenziare con sincerità e spietatezza i valori politici, sociali e le deformazioni di una società, come nel rapimento e uccisione di Aldo Moro.

Ho conosciuto Marco Bellocchio in varie occasioni, ma posso affermare che il suo cinema l’ho approfondito rivedendo tutti i suoi film nella retrospettiva che gli dedicò la mostra del nuovo cinema di Pesaro a cura di Adriano Aprà che fu anche autore di un bel saggio dal titolo “Marco Bellocchio, il cinema e i film” edito Marsilio.

Marco Bellocchio è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore; nato a Bobbio il 9 novembre 1939. Una carriera cinematografica che ha attraversato l’Italia con il suo capolavoro “I pugni in tasca“, dimostrando ai critici e al pubblico di essere uno dei registi più anticonformista del cinema italiano. Coraggioso, puntuale, ha saputo portare avanti le sue idee laiche, difendendole con la forza espressiva degli argomenti, dalla politica sessantottina alle conseguenze drammatiche degli anni di piombo, dalla follia dei manicomi, all’incapacità di amare delle persone comuni.

Lo si potrebbe definire il cineasta dell’incomunicabilità?

Mi sembra eccessivo anche se in lui vi è un muro esistenziale che si contrappone al comune pensare. Fin da giovane ha avuto la passione per il cinema. Interrompe gli studi universitari e si iscrive al centro sperimentale  di cinematografia di Roma e inizia la sua proficua carriera da regista di cortometraggi, fiction e documentari. Attratto dalla complessità del cinema, approfondisce tutti gli aspetti dell’arte, formandosi sugli insegnamenti del Neorealismo e della tetralogia della malattia e dei sentimenti di Antonioni.

Infatti, partendo dal tema della crisi della borghesia e dell’incomunicabilità, Marco Bellocchio approda a un equilibrio fra sapienza tecnica e un raffinato gusto estetico e realizza il suo primo film “Pugni in tasca” (1965) presentato alla Mostra del Cinema di Venezia come indipendente. Una pellicola crudele, distruttiva e spontanea, priva di inibizioni. Un giovane oppresso dalla educazione borghese dei genitori, e tra avvilimento e pazzia porta allo sterminio della famiglia. Violenza ancora violenza che ritroviamo quasi quotidianamente nelle cronache giornalistiche. Un film difficile che pone Bellocchio di fronte alla critica e al pubblico in un osservatorio speciale.

Due anni dopo presenta il film “La Cina è vicina“, un intenso film di contestazione ma che non ha l’equilibrio estetico-filmico del suo primo lavoro. Ne viene fuori una intelligente e rabbiosa reazione allo squallore della corruzione nei rapporti familiari, una condanna al trasformismo politico e all’ipocrisia borghese. Dopo la partecipazione al collettivo “Amore e rabbia” (1969) dove mostra il dibattito studentesco sull’avvenire della scuola.

Anni 70 – 80

Poi realizza un film denuncia “Sbatti il mostro in prima pagina” (1972), su sceneggiatura di Goffredo Fofi, un ritratto amaro sul mondo del giornalismo. Il protagonista è Gian Maria Volontè, che interpreta il ruolo del capo redattore di un grande giornale nazionale che decide di sfruttare un piccolo fatto di cronaca per mistificare il coinvolgimento politico della destra all’attentato di piazza Fontana. Il film vuole scardinare le apparenze nascoste dai mass media. La sua polemica si rivolge con il film del 1972 “Nel nome del padre” nei confronti delle contraddizioni delle istituzioni educative del mondo cattolico.

Bellocchio, grazie all’amicizia con Rulli e Petraglia, inizia a prendere a cuore il dramma del malato mentale e realizza il film “Matti da slegare” (1975) dove cerca con grande rispetto di mostrare l’erroneità dei metodi educativi in manicomio. Ma il suo anticonformismo innato entra anche nel mondo dell’addestramento militare nel film “Marcia trionfale” (1976) con Michele Placido e quello della letteratura straniera con il “Gabbiano” tratto da Cechov. Segue il documentario “La macchina cinema” (1978) con Silvano Agosti, un viaggio all’interno della Settima Arte.

Gli anni Ottanta inaugurano un ritorno simbolico ai temi prediletti degli esordi. Il regista rappresenta diverse dinamiche sentimentali all’interno di una famiglia e rancori si alternano e intrecciano al dramma del suicidio. Nel 1981 il primo film autobiografico “Vacanze in Val Trebbia“. Si tratta di un ritorno politico al suo paese di Bobbio.

Sodalizio artistico con lo psichiatra Massimo Fagioli

Il rapporto con il prof. Fagioli dà vita a un sodalizio artistico che avrà la sua consacrazione con il film “Diavolo in corpo” (1980), subito dopo la straordinaria rappresentazione di “Enrico IVMarco Bellocchiocon Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale. Il tema pirandelliano della pazzia viene ripreso magistralmente dal duo Bellocchio – Fagioli che proseguono anche con altri progetti: “La visione del sabba” sul tema della stregoneria dei tempi moderni e “La condanna” del 1981 sul tema dello stupro con tutti i riflessi psicoanalitici. Poi il ritorno  alla sperimentazione narrativa nel film “Il sogno della farfalla” (1994) con la necessità di superare la staticità del racconto filmico per varcare i confini e dare più importanza alle voci che alle immagini.

Documentari di contestazione

Dopo aver scandagliato l’inconscio Marco Bellocchio si rifugia sul lavoro di documentarista in “Sogni infranti, ragionamenti e deliri” (1995) per poi portare al cinema la tragedia “Il principe di Homburg” (1997) di Kleist dove il dualismo fra sogno e attaccamento ossessivo alla materialità, danno una interpretazione filmica originale. Struttura che si ritrova nel film “La balia” ispirato da uno scritto di Pirandello.

Laicità dentro e fuori lo Stato

Dopo lo splendido documentario “Addio del passato” (2000), dedicato a Giuseppe Verdi, Bellocchio presenta al Festival di Cannes “L’ora di religione“, cui segue “Il sorriso di una madre” (2002). Inizia da questo momento la condanna ai vizi nei confronti della chiesa istituzionale sul tema della santificazione che sfocerà nel suo ultimo film “Rapito” basato su una regola dettata da Papa PIO IX, tratto dal libro di Daniele Scalisi, di far rapire i giovani ebrei nella Capitale che abbiano avuto un battesimo cattolico, presunto o laico. Il film sta creando un grande dibattito fra il pubblico sul confronto della religione originale ebraica e quella cattolica. Inoltre alterna film sul rapimento e la morte di Aldo Moro a quelli sul ritorno al laicismo familiare, al caso Englaro e la politica del passato e del presente.

Tra cinema e teatro

In un saggio dal titolo “Marco Bellocchio tra cinema e teatroMarina Pellanda analizza e studia nel contesto dell’opera del regista quella fusione di segni che si intrecciano fra palcoscenico e cinema e che dà vita al mondo poetico del cineasta. Il teatro come tema implicito ed esplicito. La fusione fra commedia dell’arte, il Kammerspiel e il sogno che assume la categoria della messa in scena e infine le costanti cinematografiche nei lavori teatrali del regista. Bellocchio è un artista dotato di questa sintesi rara e magistrale.

 

Paolo Montanari

Foto © Corriere adriatico, Doppiozero

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