Omaggio a Guido Gozzano

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Guido Gozzano

140 anni dalla morte del primo poeta del Novecento, gigante di stile

Un poeta crepuscolare, fragile, ma complesso, Guido Gozzano, piemontese di nascita borghese, ma nella sua breve vita ha travalicato i confini per raggiungere l’Oriente. A 140 anni dalla morte, ricordato nell’Aprile scorso a Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura, il primo poeta del Novecento, come lo definì Montale, quale eredità o insegnamento lascia alla poesia italiana contemporanea?

Nonostante la sua fragilità corporea fu un gigante perché seppe andare oltre a D’Annunzio, e al dannunzianesimo. Un coraggio di stile e di rottura con schemi narrativi consolidati, che cristalizzavano la letteratura di primo Novecento al nuovo manierismo del Vate e contemporaneamente alle reazioni avanguardistiche come il futurismo italiano. E Gozzano dalla sua Torino salottiera contrapponeva stilemi già vecchi. Infatti a 25 anni si sentiva già vecchio. Nell’inizio dei “Colloqui” scrisse: “Venticinqu’anni….sono  vecchio, sono/ vecchio! Passò la giovinezza prima/ il dono mi lasciò dell’abbandono!”. Versi semplici ma intrisi dal significato dell’abbandono leopardiano. Morì di tubercolosi a soli trentadue anni, il 9 agosto 1916.

Una vita da malato

Nato a Torino il 19 dicembre 1883, il borghese Guido Gozzano, fin da ragazzo volle rompere gli schemi del ben pensare sabaudo, e dopo due bocciature al Liceo Classico, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Torino, ma dirottò i suoi interessi sulle lezioni di Arturo Graf di letteratura italiana. Nel 1906, lo studente legato alle arti, come fu Debussy per la musica, scrisse la prima raccolta poetica “La via del rifugio” che riscosse reazioni contrastanti da parte della critica, e l’anno dopo gli fu diagnosticato una lesione polmonare a causa del quale dovette fare diversi soggiorni in Liguria. Nel 1911 pubblicò la sua seconda raccolta “I colloqui”.

Gozzano sempre per motivi di salute, nel 1912 intraprese un viaggio in India, e a questo dedicò una raccolta di lettere dall’India uscita postuma nel 1917. A questo punto si possono fare due riferimenti letterari, il primo all’altro grande scrittore piemontese, Cesare Pavese, che definì Gozzano “un gigante di stile”, e che lo lega dalla tragicità di un’esistenza infelice, e spesso priva di comunicazione. Eppure la chiusura piemontese ha permesso il germogliare di due grandi scrittori come Guido Gozzano, il poeta delle piccole cose, e Cesare Pavese il poeta narrativo di una campagna piemontese mai prima raccontata.

L’elemento India collega Gozzano, influenzato dalle magie induiste alla narrazione cinematografica di Pier Paolo Pasolini, che realizzò un docu film sull’India, le sue contraddizioni antropologiche, i contrasti sociali, le atmosfere rituali. Verso “La cuna del Mondo” del 1917 è il risultato più alto della poetica e narrazione gozzaniana, che esce finalmente dalle mura casalinghe per divenire uno scrittore cosmopolita.

L’attenzione per le farfalle

Quello dell’interesse per gli insetti e in particolare per le farfalle, ma anche per la narrativa per l’infanzia, Gozzano collaborò con il Corriere dei Piccoli, e quello per la nascente cinematografia, infatti collaborò alla sceneggiatura del film su Francesco d’Assisi, mai portato a termine e un documentario sulle farfalle, evidenziano una personalità semplice, che piace ad esempio a Papa Francesco, per l’essenzialità della vita.

I suoi versi poetici non sono tanti ma significativi e sempre legati alla consapevolezza della malattia e della morte. Guido GozzanoConsiderato dalla critica ufficiale per parecchi anni un autore minore, in realtà Guido Gozzano insieme a Sergio Corazzini, poeta suo contemporaneo, che moriva dello stesso morbo a 21 anni, rappresentano la nuova poesia non legata a movimenti culturali o avanguardie, ma che attraversano in punta di piedi il Novecento. Vi è una dolceamara ironia con variazioni narrative, che nel suo romanzo più conosciuto “La signorina Felicita ovvero la felicità”, pubblicato nel 1909, in cui la sua malattia diviene una apertura al “Il malato immaginario” di Moliere, come si fa definire dalla protagonista del romanzo, salvo poi alludere a un viaggio vero l’altro “viaggio”.

Presentimento di morte

Insomma il viaggio in India serve a Gozzano per allontanare quello verso la morte. Qui un riferimento d’obbligo al romanzo di Thomas Mann “Morte a Venezia“, tradotto da Luchino Visconti nell’omonimo capolavoro cinematografico, dove la tragicità della vita quotidiana e l’insicurezza sono le caratteristiche di un decadentismo crepuscolare. Ma già nella raccolta poetica “Alle soglie” del 1911, Gozzano trasfigura poeticamente la visita che gli fanno i dottori e gli impongono uno stile di vita, in un “Nutrirsi ….non fare più versi…..nessuna notte più insonne…../ non più sigarette….non donne….tentare bei cieli più tersi: /Neri….Rapallo….San Remo….cacciare la malinconia;/e se permette faremo qualche radioscopia”.

Ma il presentimento della morte è costante nei suoi versi: “Mio cuore dubito forte- ma per te solo m’accora – / che venga quella Signora dall’uom detta la Morte(….). È una signora vestita di Nulla e che non ha forma. Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma”.

Gozzano, l’antidannunziano, è stato anche un autore incompiuto, con la sua “Nell’Abbazzia di San Giuliano“, scritta durante i suoi soggiorni liguri. Una lirica interrotta improvvisamente che evidenzia una tematica di grande attualità, il dissidio interiore tra fede e ragione che Papa Ratzinger riprese in una sua celebre enciclica. La necessità dell’Assoluto e la consapevolezza leopardiana del sogno, o meglio dell’illusione. Da una parte il fanciullino pascoliano e dall’altra l’adolescente disilluso. Poi c’è la figura ancestrale e rassicurante del nonno in Gozzano. L’abbazia per lui è il rifugio, un luogo di valori dismessi e appartati.

Amore

Vi è poi il tema dell’amore, sfortunato per Amalia Guglielminetti, che viene ripresa nella poesia Novembre del 1911, trasformatosi da amante in amica. L’artista sa amare ma il valore dell’amicizia è un approdo più sicuro e confortante. Troviamo anche il concetto dell’autoesilio, un sentimento che è molto diffuso nella nostra società, essere in grado di essere autosufficienti, ma anche quello dell’intellettuale del Novecento, incapace di vivere e avere passioni.

E allora se si diventa incapaci di un amore assoluto, Gozzano, approda alla poesia francese di Baudelaire, alla ricerca di un piacere vagabondo. E rinasce la figura del bambino triste e l’accostamento a Corazzini è immediato. Vi è poi il tema della vecchiaia. E il ricordo si fonde con il sogno, la fantasia ha il sopravvento e la donna amata ormai è attempata. Il sogno riprende l’abbandono e il rimpianto. Lo scrittore non si misura col tempo che passa, non affronta la realtà, non vive nel presente. Si rifugia nel vagheggiamento, nel sogno, solo li finge di vivere pienamente quella vita che gli à preclusa dalla malattia e che lui stesso vuole precludere.

Inconsapevolezza di un sogno

Il Gozzano crepuscolare, relegato da troppi chierici, e sul chierico rinvio alla riflessione di Umberto Cerroni, nel solaio “come le buone cose di pessimo gusto”, che collezionava (Bruno Quaranta da rivista Robinson). Per Paolo Mauri vi è nella poetica di Gozzano ambiguità e perplessità, “tra il Tutto e il Niente”, ma agognante di una inconsapevolezza di un sogno. Fu Eugenio Montale a riscoprire Gozzano: “Pregò Dio in versi perché lo liberasse dalla luce dannunziana”. E per Leone Ginzburg, Franco Antonicelli, conciliano i due mondi lontanissimi di Gozzano, la realtà quotidiana e il sogno. È l’ironia lo stiletto di Gozzano, attraverso il quale si manifesta la sua coscienza critica, dal piccolo mondo antico torinese delle pettegolezze senza raggio di bellezza, al rifugio di Meleto, la natura che non è matrigna, con il “profumo di glicine dissipi/ l’odor di muffa….”

 

Paolo Montanari

Foto © Skuola, Antiche curiosità, Biagio Carrubba blog, Piemonte Top News

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