La Banca d’Italia svela il “tesoro” di Mussolini

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Mussolini

La Tesoreria dello Stato custode delle storie e dei beni di cittadini accumulati nei depositi nel corso di decenni

 

Sono conservati tesori di 80 anni di storia italiana nei caveau della Banca d’Italia a Roma a due passi dalla Stazione Termini. Beni appartenenti alle vittime del terremoto di Messina del 1908, parte dell’oro donato “spontaneamente” alla Patria per la Campagna d’Etiopia del 1935, gioielli che gli ebrei di Salonicco cercarono di salvare dall’invasione nazista della Grecia, decine di chili di argenteria e monili lasciati dai Savoia al Quirinale nella precipitosa fuga da Roma dopo l’8 settembre del 1943, ma anche le ricchezze che i gerarchi del fascismo tentarono di portare in Svizzera, preziose collane, banconote di varie nazionalità, monili d’oro, bracciali, gemme, rubini collier. Tra queste preziosità notevole importanza ha “il tesoro” di Mussolini e le vicissitudini della sua morte e del carteggio Mussolini-Churchill.

Alcuni anni fa il ministero dell’Economia istituì un gruppo di lavoro con Banca d’Italia e i Beni Culturali per effettuare una ricognizione. Ora un libro svela i beni custoditi nella Tesoreria dello Stato di Roma, con i dati raccolti dalla Commissione dopo un lavoro impegnativo durato ben sei anni. Tra i numerosi reperti cimeli e documenti storici custoditi nei caveau, racconta il libro “Beni salvati”, spicca “Il Medagliere di Benito Mussolini”.

Il ritrovamento

Siamo nell’aprile del 1945, un anno estremamente convulso nella storia d’Italia, e denso di avvenimenti che vide l’epilogo del regime fascista e della vita di Mussolini. Il tutto avviene con la “scoperta” all’interno di Villa Montero a Como, ove aveva soggiornato il Duce e la famiglia, di un sacco nascosto nel giardino sotto un cumulo di calcinacci. Furono alcuni partigiani a ritrovarlo e probabilmente era stato nascosto da “qualcuno” che, si sospetta, in un secondo tempo sperava di asportarlo. I preziosi contenuti erano stati rinvenuti, presumibilmente, da persone che presero possesso della villa dopo l’esecuzione del duce e la presa di Como da parte dei partigiani liberatori.

Gli oggetti quindi furono nascosti in attesa di poterli poi portare via. Destino volle che fossero scoperti prima dai “Volontari della libertà”, che un certo colonnello Pinto aveva chiamato a presidiare, dopo aver requisito la villa Montero per conto del Comando Piazza. Il 29 aprile del 1945 il colonnello Pinto si presentò al prefetto di Como, l’avvocato Bertinelli del Partito socialista nominato dal Cln (Comitato di liberazione nazionale) accompagnato da alcuni partigiani: il capitano Visco e i volontari Marco Bianchi e Vincenzo Cassarino. Il primo reggeva un pacco avvolto in carta da imballaggio contenente un sacco. Quando fu sciolto rimasero tutti allibiti.

Il contenuto

Vi erano oggetti d’oro e brillanti di inestimabile valore, tra questi il pezzo forte era il prezioso collare dell’Annunziata formato da tre nodi Savoia a forma di triangolo, con al centro la Madonna e un angelo inginocchiato che le comunica il concepimento. Era la maggiore onorificenza che la Casa reale sabauda poteva concedere. Era a numero “chiuso”, solo in 20 potevano averlo. Per riceverlo era necessario che qualcuno dei cavalieri insigniti morisse. Il collare doveva essere indossato solo in particolari solenni occasioni alla presenza del Re, il titolare diveniva con questa onorificenza “cugino del Re”. Al Duce era stato conferito dal Re Vittorio Emanuele III il 16 marzo del 1924.

Vi erano altre decorazioni preziosissime, come il collare donato dallo Scià di Persia in oro e brillanti, una collana d’ambra e una di quarzo. Una medaglia di benemerenza dell’Opera nazionale maternità e infanzia datata 1926, un bastone del comando eseguito nel 1928 e consegnato al Duce il 22 maggio del 1930 dai mutilati e invalidi di guerra di Milano, una medaglia commemorativa del venticinquennale della regia Accademia navale. Tra le onorificenze è stata trovata la medaglia commemorativa dei Patti Lateranensi, emessa in occasione della stipula e datata 11 febbraio 1929, che si credeva fosse interamente d’oro, mentre a un saggio effettuato dalla Banca d’Italia è risultata “dorata”.

Onorificenze estere

Nel sacco sono state ritrovate numerosi medaglioni donati a Mussolini da Stati esteri, come quello dell’Ordine dell’Elefante Bianco risalente al 1926, medaglione dell’ordine della croce di Vytis della Lituania del 1927, gran croce dell’Ordine della Besa, conferita Mussolinidal Re Zogu d’Albania dopo il trattato di Tirana del 1926, il gran collare dell’Albania conferito a Mussolini il 16 novembre 1928, croce con aquila bicipite e stemma austriaco in metallo dorato e smalto della repubblica d’Austria, la croce di commendatore dell’Ordine di Leopoldo del Belgio del 1930, l’Ordine del Liberatore medaglione del 1934, Ordine della Stella del Nepal, conferito al Duce dal generale Bahadur il 17 luglio del 1934. La gran croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca conferita a Mussolini da Hitler il 25 settembre del 1939.

Nella bisaccia erano contenuti anche oggetti appartenenti alla signora Rachele. Si trattava di oggetti personali riconducibili alla moglie di Mussolini in fuga verso la Svizzera insieme ai figli più piccoli, c’erano poi oggetti forse appartenenti al fratello Arnaldo, una spilla con ciondolo a forma di lettera “A” dorata e un astuccio in argento a forma di ghianda, contenente un bocchino di avorio e argento come si usava all’epoca.

Storia e politica

La suddivisione dei preziosi fu compiuta con tutta probabilità direttamente o indirettamente da Mussolini. Oltre ai diari e ai documenti più riservati che il Duce scelse di salvare nella sua fuga verso la Svizzera. Decise di affidarli a membri della sua famiglia in quanto le onorificenze e le medaglie costituivano per lui la garanzia e la sopravvivenza di una identità storica e politica, al tempo stesso erano la prova tangibile di un prestigio personale costruito attraverso i rapporti diplomatici di cui le onorificenze erano testimonianza. Il sacco con i preziosi fu trattenuto dalla Prefettura di Como e trasferito nel giugno del 1953 alla Banca d’Italia di Como, da qui alla tesoreria centrale di Roma il 17 ottobre del 1953.

Un po’ di storia sulle ultime ore del Duce

Mussolini con una colonna di quaranta auto che comprendeva gerarchi, le loro famiglie e militari al seguito, mercoledì 25 aprile 1945 era giunta a Como proveniente da Milano che nel frattempo era insorta contro i tedeschi e i repubblichini. La vicinanza con la Svizzera poteva offrire una via di fuga anche se in precedenza il Duce aveva sempre rifiutato questa possibilità. Il rifiuto ad accoglierlo era stato ancora una volta confermato in quei giorni, dal rappresentante elvetico a Milano Max Troendle. In Svizzera sarebbe stato possibile concretizzare trattative con gli americani e con l’intermediazione del console spagnolo a Berna, raggiungere la Spagna di Franco.

Si ha notizia che a Como era giunto anche un furgone “Balilla-Van” che trasportava valori e documenti importanti. Questo automezzo andò in panne e non si mosse più. Sarebbe stato ritrovato, giovedì mattina, 26 aprile dai partigiani. La colonna si rimise in viaggio verso Menaggio all’alba di quel giorno. Qui si apprese che un aereo a Chiavenna era pronto al decollo per portare in salvo Mussolini in Baviera, ma non se ne fece nulla. Giunse anche notizia che i ministri Buffarini Guidi e Angelo Tarchi, che tentavano la fuga forzando la dogana, erano stati arrestati a Porlezza dai partigiani. La disperazione colse i fuggitivi.

L’arrivo del convoglio tedesco

Quella notte giunse a Menaggio un convoglio tedesco in ritirata, di trentotto autocarri e duecento soldati diretti a Merano. Mussolini con i gerarchi e le famiglie al seguito decisero di aggregarvisi. Nel frattempo era giunto Marcello Petacci fratello di Claretta a bordo di un’auto Alfa Romeo 1500 recante bandiera spagnola con la convivente Zita Ritossa i due figli e Claretta, tutti erano in possesso di passaporti spagnoli. Claretta ne aveva uno intestato a Donna Carmen Sans Balsella. Verso le ore 16 del 27 aprile a Dongo il convoglio fu fermato dai partigiani. Si accordarono che avrebbero fatto transitare solo i tedeschi mentre gli italiani furono tutti fermati. Mussolini su consiglio del capo scorta tedesco si era travestito con un cappotto militare ma fu riconosciuto e fermato. Gli americani tramite il servizio segreto americano OSS avevano appreso del fermo e intimarono ai dirigenti del Cln di trattenerlo fino al loro arrivo.

La clausola n.29 dell’armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, prevedeva che: ”Benito Mussolini e i suoi associati fascisti (…) saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite”. Nonostante ciò venerdì 27 aprile alle ore 23 il Comitato insurrezionale di Milano decise che si doveva procedere all’uccisione del Duce. Sabato 28 alle 3 del mattino il servizio radio partigiano trasmise un fonogramma agli alleati a scopo di depistaggio nel quale si asseriva l’impossibilità di consegna di Mussolini, in quanto già processato dal tribunale popolare e fucilato.

La Petacci

Ritornando al 27 aprile dopo l’arresto del Duce, il comandante Bellini delle Stelle, lo trasferì nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un piccolo paese sotto Dongo. Prima di ritornarci, in tarda serata, il partigiano ricevette richiesta da Mussolini di “portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo” (così si era presentato ai partigiani Marcello Petacci). Interrogata la signora, il partigiano Bellini delle Stelle scoprì che si trattava di Claretta Petacci che chiese, in quella drammatica circostanza, di essere ricongiunta all’amante e fu accontentata.

In quella occasione lei indossava una tuta da meccanico azzurra che risulta registrata tra i reperti in possesso della Banca d’Italia. Si ha notizia che molti famigliari dei gerarchi e alcune personalità politiche in quelle drammatiche ore, tentarono di comprarsi la fuga offrendo ai partigiani e alla popolazione ingenti valori e gioielli. Pavolini e Corradori cercarono di fuggire gettandosi nel lago ma furono feriti e ripresi. Sempre il 27 aprile 16 esponenti del regime furono sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo, altri, una decina, arrestati e condotti a Como. Nelle due notti successive furono anch’essi uccisi.

 

Segue seconda parte della storia.

 

Giancarlo Cocco

Foto © Linkedin, Giancarlo Cocco, YouTube, IoDonna

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Giancarlo Cocco
Laureato in Scienze Sociali ad indirizzo psicologico opera da oltre trenta anni come operatore della comunicazione. Ha iniziato la sua attività giornalistica presso l’area Comunicazione di Telecom Italia monitorando i summit europei, vanta collaborazioni con articoli sul mensile di Esperienza organo dell’associazione Seniores d’Azienda, è inserito nella redazione di News Continuare insieme dei Seniores di Telecom Italia ed è titolare della rubrica “Europa”, collabora con il mensile 50ePiù ed è accreditato per conto di questa rivista presso la Sala stampa Vaticana, l’ufficio stampa del Parlamento europeo e l’ufficio stampa del Ministero degli Affari Esteri. Dal 2010 è corrispondente da Roma del quotidiano on-line delle Marche Picusonline.

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