Sul Bosforo soffia il vento dell’antieuropeismo

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La recente vittoria elettorale di Erdogan e una diffidenza verso l’Ue diffusa nella popolazione turca

 

Se in Ucraina la voglia d’Europa è stata così forte da portare il Paese ex sovietico ad un passo dalla guerra civile, nell’altra grande pretendente all’ingresso nell’Europa comunitaria, la Turchia, si respira una pesante aria di antieuropeismo: da quando negli anni Sessanta Ankara presentò la sua candidatura a membro dell’allora Cee, mai una così enorme distanza l’aveva separata da Bruxelles. Gli ultimi sei mesi hanno rappresentato il punto più basso di questo cinquantennale, e spesso burrascoso, rapporto: dopo che a settembre il ministro turco per i Rapporti con l’Ue aveva ammesso un rischio-fallimento per i negoziati sull’ingresso della Turchia, e dopo un presunto flirt autunnale con la nascente Unione Doganale Euroasiatica di Russia, Kazakhstan e Bielorussia (rivelato dal kazako Nazarbayev), ora i duri strali del premier Recep Erdogan contro i social network e contro gli oppositori (“traditori che la dovranno pagare”) sembrano quasi fatti apposta per ridare voce a coloro che a Bruxelles, per anni, hanno sollevato la questione dei diritti umani come discriminante all’ingresso di Ankara nell’Unione Europea.

Ma perchè, dopo mezzo secolo di estenuanti trattative, la Turchia avrebbe adottato questo improvviso roll-back nei confronti dell’Ue? E soprattutto, perchè proprio ora, visto che Ankara non aveva abbandonato il suo sogno europeo nemmeno quando, nel 2009, la Francia equiparò alla Shoah il genocidio del popolo armeno compiuto dall’esercito ottomano durante la Prima Guerra Mondiale?

La spiegazione va cercata nelle dinamiche interne di una Turchia che, dopo una fase di grande crescita economica, dovuta anche ad una lunga fase di stabilità politica garantita dall’esecutivo islamico-moderato di Erdogan, nell’ultimo anno ha visto rallentare la propria economia e soprattutto traballare il suo establishment sotto i colpi della rivolta di Piazza Taksim e della tangentopoli che è andata a colpire gli uomini più vicini al premier. Per questo, Erdogan sembra aver deciso di riguadagnare i consensi perduti abbracciando un euroscetticismo che, complice la crisi dell’Eurozona, in Turchia sta facendo sempre più proseliti: diversi sondaggi indicano come la percentuale di cittadini turchi favorevoli all’ingresso nell’Ue sia crollata dal 73% al 44% nell’arco di dieci anni.
L’opinione dominante tra i cittadini turchi è che, per mantenere ed incrementare la crescita, Ankara debba continuare a prendere le sue decisioni economiche in maniera autonoma, piuttosto che subire passivamente quelle assunte a Bruxelles sotto la spinta dell’asse franco-tedesco: l’Europa, una volta simbolo di benessere e sviluppo, è oggi vista come un partner inaffidabile da più della metà dei turchi, che al contrario ritengono l’Asia il contesto geoeconomico più adatto a soddisfare gli interessi nazionali.

E da vecchia volpe politica qual è, Erdogan sa benissimo che una politica condita di antieuropeismo può essere in questa fase l’asso nella manica per recuperare i consensi perduti negli scontri di Gezi Park e nello scandalo-corruzione: dinanzi al timore di un’Ue fatta di burocrati, tagli, lacrime e sangue, il premier si è elevato a paladino dei portafogli dei suoi concittadini, in nome di un (ancora informe) “splendido isolamento” turco. E il successo alle recenti elezioni amministrative sembra avergli dato ragione.

Alessandro Ronga

Foto © European Community, 2014

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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