(Post concesso in esclusiva da Eurocomunicazione alla Rappresentanza in Italia della Commissione europea, vedi link)
Ad oggi l’unica certezza che esiste in Turchia è l’incertezza: il 7 giugno gli elettori hanno alzato una linea Maginot tra il presidente Erdogan e la sua ambizione di assumere ancora più potere nelle sue mani: il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) non ha raggiunto la maggioranza dei tre quinti (330 seggi) necessaria per emendare la Costituzione, e neppure la maggioranza semplice. Erdogan ha sì vinto, ma non ha trionfato: quel 40 per cento dei voti ottenuti dall’AKP impediscono al “Sultano” di governare come vuole, poichè gli mancano 17 seggi per raggiungere i 276 necessari a formare un esecutivo monocolore.
I voti persi dal partito del presidente sono finiti in gran parte ai curdi del Partito Democratico dei Popoli (HDP), che con il 12,8% dei voti supera lo sbarramento del 10% e conquista 80 seggi: un successo frutto di un’intelligente politica del leader Selahattin Demirtas, bravo a sganciare il partito dall’immagine di partito etnico, che gli ha permesso di conquistare i voti, oltre che dei nazionalisti curdi, anche dei conservatori, dei liberali di sinistra, degli attivisti Lgbt, delle minoranze cristiane e di tutti i turchi che non si riconoscono nel neo-ottomanismo di Erdogan.
Questo flop potrebbe dar vita a un riassetto di forze nell’AKP, dal quale potrebbero riemergere gli esponenti più liberali e riformisti come l’ex presidente Abdullah Gül. Finito ai margini della scena politica dopo le frizioni con Erdogan sulla repressione di Gezi Park, Gül si è già detto pronto a subentrare al dimissionario Davutoglu e ad assumere la guida di un governo con i nazionalisti del MHP, unici possibili partner di una coalizione difficile, ma non impossibile rispetto ad una tra l’AKP e il centrosinistra del CHP o con i curdi dell’HDP.
Ma il matrimonio d’interesse tra islamici moderati e nazionalisti potrebbe saltare ancor prima della celebrazione se Gül decidesse di aprire una trattativa con l’HDP per la soluzione della questione curda, poichè in tal caso rischierebbe di mettersi contro il MHP e di ritrovarsi ben presto senza maggioranza. Il fantasma dell’instabilità politica pare infestare le rive del Bosforo, tanto che l’ipotesi di un ritorno alle urne in autunno prende quota giorno dopo giorno, anche se per il partito di Erdogan non è affatto scontato un risultato diverso da quello di inizio giugno. Anzi.
Nel frattempo, l’instabilità comincia a far danni sui mercati finanziari, dove la lira turca ha già toccato il minimo storico all’indomani delle elezioni, segno che gli investitori non gradiscono l’ipotesi del governo di coalizione. In una fase in cui l’economia nazionale rallenta, un segnale forte potrebbe venire dal rilancio di programmi di liberalizzazione, sotto la guida attenta di economisti vicini all’area riformista del partito, messi in disparte a favore di tecnocrati più vicini agli interessi della sfera politica.
Alessandro Ronga
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