La fotografia, scattata nel campo di Idomeni, è apparsa sui media di tutto il mondo. La solidarietà del piccolo profugo per i fatti di Bruxelles ci costringe a una riflessione
Un cartello bianco scritto con un pennarello. A tenerlo in mano un bambino, lo sguardo dritto penetra l’obiettivo, la bocca serrata forse a trattenere il dolore, le lacrime, la rabbia. Sul cartello campeggia una scritta: “Sorry for Brussels”. Quel bambino si trova nel campo greco di Idomeni, è un profugo, e sta vivendo la sua personale tragedia in quella tendopoli dove da giorni, in 12mila, attendono di poter attraversare il confine fra Grecia e Macedonia. In quello stesso campo ieri due uomini si sono dati fuoco per protestare contro la chiusura della rotta balcanica. “Meglio morire che tornare indietro” avrebbero detto.
Da questo luogo di sofferenza e disperazione arriva la foto che ha fatto il giro del mondo, diffusa dai media internazionali. Un’immagine che testimonia la solidarietà di un bambino a Bruxelles e all’Europa tutta. Ma c’è qualcos’altro oltre alla solidarietà negli occhi di quel piccolo profugo: la testa bassa, pare nascondere una sorta di imbarazzo. Può apparire un paradosso, ma quel bambino sembra volerci rassicurare: “Non è colpa nostra. Non siamo noi il male”. Questo sembra volerci dire.
Non sappiamo nulla dei mondi che si nascondo dietro a quei due occhi. Nulla della sua vita precedente, del viaggio della speranza, dei giorni nella tendopoli. Ma sappiamo che quegli occhi ci costringono a una riflessione. In queste ore in cui il mondo, di nuovo, come in un tragico deja vu, è impazzito. Travolto da un impeto di terrore che sembra sempre più prendere la forma di una spirale che si attorciglia su se stessa.
I terroristi dell’Isis ci attaccano nel cuore vivo e pulsante della nostra civiltà. Attaccano il nostro modo di vivere, la nostra cultura, le nostre istituzioni. Destabilizzano le nostre certezze. Ci obbligano a domandarci cosa fare, come rispondere a tanto odio. La rabbia è forte e questo è innegabile. Ma dalla rabbia non deve necessariamente scaturire altro odio o peggio ancora violenza.
Cosa dobbiamo raccontare ai nostri figli di tutto questo? E come spiegargli quel cartello? Perché quel piccolo profugo, dall’inferno che sta vivendo, si preoccupa di noi, vuole chiederci scusa?
È proprio da qui che parte la risposta che il mondo, o meglio, la nostra parte di mondo, quella occidentale, moderna, civilizzata, vuole dare al terrorismo. Da ciò che diremo ai nostri di bambini, a come spiegheremo loro ciò che sta avvenendo in questa epoca. Se ci faremo prendere dalla tentazione di lasciarci travolgere dall’odio, se cederemo alla facile equazione Islam=Isis, se li convinceremo che basti chiudere le frontiere, alzare muri, per stare al sicuro. Se scaricheremo su quel piccolo profugo la colpa di essere nato in un Paese in guerra e di essere scappato da lì per venire a cercare riparo “in casa nostra”. Se davvero finiremo con il pensare, e far credere ai nostri figli, che i terroristi vengano tutti da lì e che gli immigrati siano il nostro problema.
La vera arma con la quale la civiltà occidentale può rispondere al terrorismo è proprio questa: resistere alle strumentalizzazioni e continuare invece a credere, ora più che mai, nei nostri valori, alimentare la nostra cultura, che è anche fatta di integrazione, accoglienza, solidarietà. E fare in modo che nessuno debba più sentirsi in dovere di chiedere scusa per qualcosa di cui non ha nessuna colpa.
Valentina Ferraro
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