Perché l’Europa deve studiare (meglio) da potenza globale

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Il terrorismo, i migranti, le spaccature interne: l’Unione europea si mostra divisa dinanzi alle crisi per la cui risoluzione serve un approccio unitario da vera forza globale

Diventare attore politico a livello globale non è semplice, men che meno quando si deve trovare un compromesso tra Ventotto membri, ormai possiamo iniziare a dire Ventisette, che non la pensano alla stessa maniera. È il problema dei problemi che da sempre affligge la capacità d’azione esterna dell’Ue. Ma l’attualità degli eventi che si susseguono incessanti rende più di una priorità l’esigenza di un’Europa unita dal punto di vista meramente politico, con strutture che ne simboleggino, al suo interno e al di fuori dei suoi confini, una sorta di “statualità”. E non basta l’azione dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Federica Mogherini, che si affanna su più tavoli e da un’emergenza all’altra in cerca di un consenso minato alla base.

Migliorare i rapporti con Mosca

Occorre essere chiari e in assenza di una politica estera comune risulta vano ogni sforzo: l’esperienza del vertice di Minsk tra Ue, Russia e Ucraina dell’agosto 2014 ha rappresentato una best practice, non fosse altro per aver consentito l’avvio del dialogo tra Mosca e Kiev e di aver coinvolto nelle trattative un soggetto terzo, la Bielorussia, che può rivelarsi un utile mediatore, quale formale amica dei russi, e ultimamente molto più disponibile al dialogo con Bruxelles.

Il buon successo di Minsk è stato incoraggiante per ricostruire i rapporti con la Russia, ma soprattutto per ridurre le divergenze tra l’Europa occidentale, più propensa alla trattativa con Putin, e quella orientale, storicamente anti-russa e più intransigente. Il lavoro paziente e di equilibri della Mogherini – sulla scia della Ashton – potrebbe rivelarsi nel medio periodo un successo. Ma intanto l’Europa è bloccata dallo stallo su troppi fronti internazionali.

L’avanzata nazional-populista

L’Europa orientale è l’origine della frattura che oggi rende debole l’Ue. Non bastasse l’ungherese Orban, ora a creare problemi ci si è messo anche il governo ultranazionalista polacco, che con le sue leggi sul controllo dei media pubblici e sulla limitazione dei poteri della Corte Costituzionale sembra aver lanciato una sfida alla Commissione e al Consiglio europeo, quest’ultimo presieduto da Donald Tusk che i seguaci di Jaroslaw Kaczynski detestano visceralmente. Stesso dicasi sull’infinito processo d’ingresso di Ankara nell’Unione, un tira e molla che rimane a fatica in piedi grazie all’accordo sui migranti. Varsavia è la capofila del fronte euroscettico del “No”, che trova nell’alleanza di Visegrád il suo peso maggiore, e anche su questo servirà lavorare molto per superare le divisioni e avere una linea comune. Soprattutto in tema di principi fondamentali dell’Europa comunitaria sia a chi intende diventarne parte ma anche e a chi è già membro e pare esserselo dimenticato. Un tema questo che tocca anche membri fondatori del progetto comunitario, alle prese con i venti populisti a fasi alterne dei vari Grillo, Le Pen o Alternativa per la Germania.

L’allargamento dimenticato

Solo se riuscirà a ricucire i rapporti tra i suoi componenti e se si mostrerà compatta l’Ue avrà la chance di far valere il suo ruolo di soggetto politico globale dinanzi alle gravi crisi della contemporaneità. A cominciare da quella che già ha varcato le sue porte, perché le radici stesse dell’Europa le impongono di tracciare un indirizzo politico nei Balcani, nel Vicino Oriente e in Africa, dove milioni di disperati mettono in gioco la propria vita per cercarne una migliore. E anche qui l’ostruzionismo non controllabile dei Paesi dell’ex blocco dell’Est non fanno altro che ritardare una soluzione non più procrastinabile, che si intreccia con i destini politici della Turchia. Ma anche di Serbia, FYROM, Bosnia, Montenegro, Albania e di chiunque voglia ancora entrare nella grande famiglia europea. Pur in un contesto dove l’emergenza sicurezza e occupazione hanno totalmente monopolizzato il cammino dell’Unione, l’allargamento rimane parte stessa del grande ideale europeista, e come tale rimane un caposaldo della stessa costruzione comunitaria. Con i suoi specifici valori da rispettare, a monito dello scempio di una guerra civile europea scatenata da chi riteneva principi fondamentali come la libertà di stampa e il rispetto delle minoranze delle zavorre di cui liberarsi.

L’Ue nel ruolo degli Usa

Cominciare a studiare da potenza globale è un obbligo. Gli Usa a guida Trump potrebbero complicare  la continuità dei rapporti fra i due storici alleati. Cambiamento climatico, politica commerciale fino alle divergenze sul ruolo della NATO stanno di fatto lasciando sempre più sola l’Unione europea. Questo cambio di rotta potrebbe paradossalmente rappresentare uno stimolo come dimostra lo storico accordo del Vertice europeo del 22 giugno sulla cooperazione permanente in materia di difesa.

Se gli Usa dovessero nei prossimi anni optare per il “disimpegno” dalle principali crisi mondiali, l’Europa dovrà colmare il vuoto lasciato da Washington. E per farlo, dovrà essere in grado di gestire crisi nelle aree più prossime ai propri confini, su tutti Medio Oriente e Africa. Un’eventualità non così remota e per la quale bisogna cominciare ad attrezzarsi seriamente. L’alleanza tra Europa e Africa rilanciata quest’anno sulla base di valori e interessi comuni – pace, sicurezza, migrazione, creazione di posti di lavoro ed energia – rappresenta un concreto auspicio dopo il recente vertice Ue-Africa.

Primi risultati

Nel campo della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, ad esempio, qualcosa sta già cambiando. Gli aiuti economici, talvolta poco fecondi per le economie di questi Paesi, ora sono più mirati verso nazioni con un reddito pro-capite molto basso, dove possono produrre maggiori risultati. Con i Paesi a reddito medio, invece, l’Ue lavorerà meno finanziariamente e più politicamente, ovvero puntando meno sugli aiuti e molto di più sul sostegno a una crescita inclusiva e sostenibile, e su diritti umani, democrazia, stato di diritto e buona governance. Ciò significa una maggior presenza istituzionale contro l’evasione fiscale e i flussi finanziari illeciti, che annualmente costano ai Paesi in via di sviluppo fino a 900 miliardi di euro.

L’Unione europea sta puntando a fornire alle popolazioni povere i mezzi per controllare il proprio sviluppo cercando di ridurre al minimo l’esodo verso il Nord del continente: non più solo pane a chi ha fame ma investimenti per creare in loco prospettive durature di un futuro migliore.

Come ribadito nel libro bianco sul futuro dell’Europa, solo un’Unione “forza globale positiva” riuscirà a dominare le sfide della globalizzazione cogliendone le opportunità per se stessa e i suoi partner.

 

Alessandro Ronga e Andrea Maresi

Foto © European Union

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