Thomas Bernhard: la matematica del caos

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Esce “Camminare”, romanzo breve ancora inedito in Italia; un compendio delle ossessioni che popolano l’universo dello scrittore austriaco, un viaggio nei labirinti del pensiero

«Quello che facciamo è meditare sino allo sfinimento su cose insolubili», scrive Thomas Bernhard in Camminare, un breve romanzo del 1971 appena pubblicato da Adelphi, una frase che ben definisce le coordinate del mondo poetico dello scrittore austriaco. Bernhard declina alla propria maniera la Wanderung di romantica memoria, quell’attitudine al vagabondaggio senza fine, quel sentirsi estranei in ogni luogo, condannati a un’eterno peregrinare.

Con Robert Walser condivide un’attitudine all’irrealtà, anche se la celebre Passeggiata dell’autore svizzero si svolge in una dimensione rasserenata, nella quale «il sorriso prevale sul rovello», come giustamente scrive Emilio Castellani. La consapevolezza dell’ineluttabile fine si ammanta di una ingenuità fanciullesca, una mestizia sempre colma di poesia.

In Bernhard il camminare coincide con il processo stesso del pensiero. In questo la parentela con Musil, sempre attento a indagare le origini di quanto si cela nei recessi della mente, appare evidente. All’inizio del libro c’è un gesto ossessivo, un’affermazione che mette in moto il meccanismo. Un inesorabile strumento che, come l’erpice kafkiano, incide le parole con forza inusitata. L’orchestrazione ritmica è affidata alle continue ripetizioni le quali, come leitmotiv, scandiscono il racconto. In quest’ottica le sue opere sono grandi partiture dalla solida costruzione formale, tentativi disperati di sezionare la vita e la morte mediante un’affabulazione continua e torrenziale.

Temi del libro il legame fra la pazzia e il suicidio, come sarà nel successivo Correzione (1975), del quale appare quasi come un bozzetto preparatorio. In entrambi i casi si cercano le ragioni del caos che governa le nostre vite mediante una ricostruzione a posteriori dei fatti accaduti, procedimento del resto usuale in Bernhard.

Karrer è impazzito, internato nello Steinhof dal quale, certamente, non uscirà più. Il suo fragile equilibrio, la sua indole febbrile è andata in pezzi durante la visita a un negozio di pantaloni, nel litigio con un commesso che cercava di convincerlo riguardo la bontà dei suoi tessuti, che a lui apparivano di scarsa qualità. Oehler racconta l’episodio, del quale è stato testimone, al medico psichiatra Scherrer, pur sapendo che questi è un ciarlatano, che non potrà salvare il suo amico dall’abisso nel quale è precipitato. «Quando siamo in compagnia di medici, ci sconvolge osservare come esercitino la professione in piena ignoranza», dice Oehler esplicitando un tema caro a Bernhard sin dal primo romanzo, il folgorante Gelo.

Un indizio irrilevante, a detta di Oehler, un evento per nulla fondamentale nella scaturigine della pazzia di Karrer. In realtà le ragioni di tutto sarebbero individuabili nel suicidio di Hollensteiner, un geniale scienziato-filosofo condotto alla rovina dal rifiuto del ministero della Pubblica Istruzione a fornire i mezzi necessari per la sopravvivenza del suo Istituto di Chimica. Lo Stato austriaco appare, come sempre in Bernhard, ostile a qualsiasi manifestazione del pensiero, cieco e brutale nei suoi meccanismi burocratici. In un tale ambiente, il genio non può far altro che suicidarsi.

«In ogni pensiero siamo perduti»; la ricerca delle cause di un qualcosa che è sostanzialmente inspiegabile conduce in un labirinto della mente, in un groviglio di domande alle quali non c’è risposta. Linguaggio e realtà, e non a caso i personaggi meditano fino allo sfinimento su una frase del filosofo Wittgenstein assolutamente oscura, appaiono del tutto separati.

Gran parte delle ossessioni bernhardiane compaiono in questo libello breve ma denso di contenuti: l’immane desolazione che ammanta le nostre azioni, l’idea del processo vitale come peggioramento continuo, e non come progresso, la storia come menzogna, la procreazione come meccanismo di infelicità, il rapporto con i parenti, i quali risultano sempre ostili a ogni attività intellettuale.

Ipnotica e avvolgente, la prosa di Bernhard non lascia scampo. Eppure, nelle pieghe di uno stile claustrofobico e tagliente, spesso si fa strada un umorismo nero, come quando l’autore impegna i suoi personaggi in una discussione “defaticante” sullo stesso Wittgenstein, quasi potesse essere di sollievo meditare su uno dei pensatori più complessi dell’intera storia della filosofia. Anche la scena della follia di Karrer, magistralmente condotta sul filo di un registro in bilico fra il tragico e il quotidiano, veicola inevitabilmente un sorriso amaro, unica reazione possibile di fronte all’incomprensibile.

È un attimo a fare la differenza, quell’attimo nel quale si transita dalla sanità, qualsiasi cosa questo voglia dire, alla follia. Una pazzia che coglie Karrer all’apice del suo pensiero, come a dire che maggiore è l’intelligenza, più alta la probabilità di non riuscire a tollerare l’intollerabile. Bisognerebbe risalire sempre a tutto, per comprendere, bisognerebbe soppesare le cause e i fatti nella loro interezza, ma questo è impossibile. Se cerchiamo di prendere fra le dita la trama dell’esistenza, fatta di cose imponderabili, questa si sgretola, lasciandoci soli con la nostra impotenza.

«Quando ci osserviamo, in fondo non osserviamo mai noi stessi, bensì sempre un altro», scrive ancora Bernhard recuperando alla propria maniera il tema del doppio caro a tanti scrittori, da Poe a Stevenson. Un concetto che infrange qualsiasi possibilità di autoanalisi.

«… anche se noi stessi per la maggior parte del tempo crediamo all’insensatezza del pensiero, perchè sappiamo che il pensiero è piena insensatezza, ma perchè – d’altra parte – sappiamo con altrettanta precisione che noi senza l’insensatezza del pensiero non siamo, ovvero non siamo nulla».

Bernhard getta il proprio sguardo nell’abisso, e ne esce sconvolto. Come il principe di Saurau, protagonista di Perturbamento, il suo capolavoro, coltiva una pericolosa tendenza al soliloquio. L’intera sua opera appare allora come un immenso monologo, un camminare inarrestabile e un pensare inarrestabile, prestando ascolto agli scricchiolii di un mondo sull’orlo del disfacimento.

 

Riccardo Cenci

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Thomas Bernhard

Camminare

Adelphi

Traduzione di Giovanna Agabio

pg. 137 € 13,00

 

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Riccardo Cenci
Riccardo Cenci. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne ed in Lettere presso l’Università La Sapienza. Giornalista pubblicista, ha iniziato come critico nel campo della musica classica, per estendere in seguito la propria attività all’intero ambito culturale. Ha collaborato con numerosi quotidiani, periodici, radio e siti web. All’intensa attività giornalistica ha affiancato quella di docente e di scrittore. Ha pubblicato vari libri (raccolte di racconti e romanzi). Attualmente lavora come Dirigente presso l’Enpam.

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