Perchè la pace fiscale è necessaria ma non è sufficiente

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Stiamo passando da un economia del lavoro ad un economia del post lavoro. Gli attuali sistemi scolastici, di welfare e fiscale non sono adeguati

“Lo ammetto, ho delle cartelle esattoriali da pagare. Le ho accumulate negli anni. Perché? Non avevo i soldi per pagarle. Ho debiti con le banche, ho da mantenere una famiglia, ho dovuto rinunciare ad avere una casa mia. E lo Stato mi ricorda tutti gli anni che gli devo dei soldi. Ma ogni anno o pago le cartelle, o mi prendo cura della mia famiglia. I soldi che non do allo Stato li do all’economia italiana, non li sto mettendo in una banca estera.”

Quanti di noi conoscono persone che potrebbero fare questo discorso?

Io personalmente ne conosco diverse, e non voglio giustificarli, né portare loro la vostra compassione.

Quello che voglio fare è mettere in luce un fenomeno sociologico.

Ossia di come la società sia cambiata negli anni, ma la politica non è stata in grado di governarla.

Non solo in Italia, ma, più o meno nel Mondo.

Tutte le istituzioni che gestiscono la nostra vita sono le stesse, più o meno dal dopo guerra, se non da prima.

All’inizio del Novecento, in tutti i Paesi del mondo industrializzato, vi erano:

  • Industriali e imprenditori: ricchi borghesi o nobili, che avevano investito il loro capitale nelle loro industrie dai cui ricavano il loro profitto che potevano investire o spendere o risparmiare
  • Proprietari terrieri: ricchi, per lo più nobili, che possedevano terreni che altri coltivavano per loro (pagandoli in qualche modo a seconda del contratto) oppure vi allevavano bestiame
  • Notabili e liberi professionisti: nobili o borghesi che, avendo potuto portare a termine gli studi, si occupavano di problemi legati alla gestione economica (commercialisti e ragionieri), legale (notai e avvocati), costruzione (ingegneri, architetti, geometri e periti), della salute (medici)
  • Artigiani e commercianti: che vivevano delle loro attività e delle loro capacità di realizzare o vendere prodotti
  • Contadini: coloro che coltivavano la terra per conto terzi
  • Operai: coloro che lavoravano nelle fabbriche
  • Impiegati privati: piano piano le industrie avevano bisogno anche di mano d’opera per gestire la parte burocratica
  • Impiegati pubblici: lavorano negli uffici per permettere all’amministrazione pubblica di funzionare ed erogare servizi alla popolazione o riscuotere le tasse. Ne fanno parte anche le forze dell’ordine, la magistratura, l’esercito e gli insegnanti.

Per permettere che quest’organizzazione funzioni, che il conflitto sociale sia il più basso possibile, ogni Stato Nazione si è organizzato come meglio credeva ma fondamentalmente si è dato delle regole (Costituzione, Codice civile, Codice penale, ecc. ecc.) che stabilisce cosa è giusto e sbagliato.

Di questo sistema ne fanno parte anche l’organizzazione dello Stato: chi detiene il potere legislativo, chi quello esecutivo e chi quello giudiziario. Si è definito chi può votare e per cosa si può votare.

Fondamentalmente, tutti gli Stati hanno organizzato un modello di scuola, un modello di welfare e un modello fiscale.

La scuola serve per dare al mondo produttivo quelle figure professionali di cui ha bisogno.

Il modello di welfare serve per dare le cure necessarie ai malati e si prende cura di chi non può lavorare, soprattutto coloro che sono troppo vecchi per farlo (visto che la scuola si occupa di chi è troppo giovane per farlo).

Il modello fiscale, infine, serve per prendere le risorse per mantenere l’apparato burocratico e amministrativo e ridistribuire le risorse sia tramite sussidi che servizi.

Questi modelli variano a seconda se il Paese è più o meno liberale o più o meno socialdemocratico, in base al livello di democrazia o autoritarismo del sistema politico.

Non ci interessa qui, giudicare quale che sia quello più corretto o meno.

Il modello economico

Quello che ci preme sottolineare è che ogni organizzazione statale ha come punto di riferimento il modello economico basato sul lavoro e sulla produzione.

Il benessere si misura in ricchezza e la ricchezza si misura in Pil: prodotto interno lordo. Ossia la somma di tutto quello che produce quella Nazione.

Negli Anni ’80 tutti, o quasi, volevamo essere americani, nel senso di statunitensi. Era la Nazione più ricca, che aveva imposto il proprio modello di vita. Altri volevano essere russi, nel senso di sovietici, dove tutti erano uguali.

Ma fondamentalmente sia in negli Usa che l’Urss avevano lo stesso modello sociale: si va a scuola per imparare un lavoro, si lavora, si pagano le tasse, si ricevono dei servizi di welfare, si va in pensione e si muore (nel giro di pochi anni dalla pensione… spera lo Stato).

Sia in Usa che in Urss si lavora circa 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, si va a scuola dai 6 anni ai 16/18, si va in pensione verso i 65 anni.

E questo accade anche oggi, come nel 1980 e come nel 1950.

Solo che nel frattempo il modello economico è cambiato.

L’evoluzione dell’occupazione in Italia

Nel 1923, anno della riforma Gentile della scuola, l’Italia è un Paese agricolo. Nel 1970, quando la settimana lavorativa viene fissata a 40 ore, l’Italia è un Paese industriale. Oggi è un Paese che vive di servizi.

All’inizio del 1900 il 70% della popolazione italiana lavorava in agricoltura, il 18% nell’industria e il 12% in altre professioni. Nel 1921 il lavoro agricolo è ancora il primo per occupazione ma con un forte calo (56%), mentre salgono gli altri due settori (25% industria e 19% altro). Il settore industriale diventa il primo settore nel 1961 con il 40% (29% il settore agricolo superato dal terziario che arriva al 31%).  Nel 1971, l’industria tocca il suo massimo con il 44%, da allora in poi i lavori principali sono quelli del terziario. Nel 2011 (dato dell’ultimo censimento), il terziario occupa il 67% dei lavoratori, il 27% è nell’industria e il 6% (in aumento rispetto al 10 anni prima) l’agricoltura.

La prima cosa che emerge è che in Italia, la maggioranza assoluta dei lavoratori non produce prodotti. Si occupa per lo più di servizi. Il lavoro non è più legato alla realizzazione di qualcosa di tangibile, ma di qualcosa che serve, è utile, a qualcun altro sia un’impresa o una persona.

Altro dato interessante. Nel 1959 (primo dato utile sul sito dell’Istat) il 59% delle persone era attiva lavorativamente parlando (era occupata o cercava lavoro). Di queste il 93% lavorava. Tra forza lavoro (occupati e in cerca di occupazione) e non forza lavoro (persone che non lavorano o per età o perché non cercano lavoro) il rapporto era di 55% a 45%. Nel 1970 la percentuale delle persone attive scende al 49%, di queste lavorano il 95%. Il rapporto tra forza lavoro e non forza lavoro si è rovesciato (46% a 54%).

L’ultimo dato dell’Istat è riferito al 2015, siamo ancora nella coda della crisi economica. Le persone attive sul mercato del lavoro sono ancora il 49% ma di questi, quelli che lavorano sono l’88%. Questo fa sì che il rapporto tra forza lavoro e non forza lavoro è di 43% a 57%. La punta più alta già raggiunte altre volte.

Questo conferma che stiamo passando da un epoca industriale ad un epoca del non-lavoro.

Lavorare meno, lavorare meglio

Dopo la battaglia di inizio secolo del lavorare menolavorare tutti, stiamo riparlando di riduzione dell’orario di lavoro.

Ma mentre vent’anni fa il problema era quello di far aumentare il livello occupazionale, oggi il motivo è un altro e nasce dalla domanda: abbiamo bisogno di lavorare 40 ore a settimana? Molte aziende, infatti, si stanno accorgendo che ridurre la settimana lavorativa a 4 giornate, aumenta il livello di produzione. Si tratta quindi solo di lavorare meno, che, da qualche parte potrebbe portare ad un lieve aumento occupazionale, ma sempre con un totale di ore lavorate complessive minore dell’attuale.

Altro segnale. Il sempre maggiore ricorso a forme di lavoro saltuario, o meglio collaborativo. Un po’ per il costo del lavoro dell’azienda, un po’ per la voglia di libertà delle nuove generazioni, sono sempre di più i giovani e i non giovani che scelgono di aprire una partita iva con il così detto regime dei minimi o forfettino, dove in realtà l’iva non esiste (non si emette, non si incassa, non si paga).

Anche i luoghi di lavoro cambiano. Si parla sempre più di smartworking, anche se a sproposito, confondendolo con l’homeworking o il lavoro da remote. Non c’è più bisogno di lavorare in ufficio, di essere sempre sotto il controllo del capo. Si può lavorare da casa, basta avere una buona connessione e un buon PC.

I piccoli liberi professionisti, invece, scoprono forme di coworking, riunendosi e dividendosi le spese. Nascono le società tra professionisti, che sono una soluzione soprattutto per i grandi professionisti, avvocati, consulenti del lavoro, ingegneri, ecc. ecc.

Il sistema scolastico

Nascono nuovi lavori. Oggi mio figlio vuole fare il tiwcher streamer, evoluzione dello youtuber. Siamo circondati fa influencer che hanno cambiato il mondo della pubblicità.

Altri lavori sono scomparsi, altri ne nascono, ma soprattutto finiscono i lavori a tempo indeterminato se non quelli alle dipendenze, e nascono le collaborazioni, che poi possono anche essere più lunghe e stabili di altre forme.

In tutto questo la scuola resta indietro. Soprattutto sulle competenze digitali. E se già era un’illusione parlare di educazione civica, è un miraggio sentire parlare di identità digitale. Sembra che la scuola abbia smarrito la sua missione che per anni era quella di preparare operai (istituti professionali) tecnici qualificati (istituti tecnici) professionisti e manager (licei). L’università che negli anni ’90 era percorso finale ha perso il suo valore.

Oggi un laureato non è più in grado di riscattare gli anni spesi a studiare, ma è diventato indispensabile anche per lavori una volta meno qualificati (pensiamo all’evoluzione che ha avuto la figura dell’infermiere che negli anni è passata da essere fatta da suore, a poi diplomati e oggi da laureati). A cosa serve, quindi, oggi andare a scuola? A trovare un lavoro? Oppure a farci diventare grandi, a saper cogliere le occasioni, a comprendere il mondo che ci circonda? E a mille altre cose? È in grado di farlo?

E mentre cerchiamo risposte e domande al problema scuola, non dimentichiamo gli altri sistemi.

Il sistema welfare

Il sistema del welfare che è legato alle aspettative di vita. L’età media si è notevolmente allungata, e anche la qualità della vita degli anziani. Se negli anni ’80 un uomo anziano si rompeva una gamba, veniva allettato con effetto che sarebbe morto nel giro di pochi anni. Oggi invece è normare arrivare alla soglia dei cent’anni, grazie ad una qualità della vita e cure migliori.

Ovviamente gli anziani non possono lavorare (entrambi i miei nonni hanno lavorato ben oltre l’età della pensione), e oggi si continua ad andare in pensione a 65 anni, come negli Anni ’70, quando l’aspettativa della vita era di 75 anni circa. Oggi di vive dai 10 ai 20 anni di più. Supponendo che uno entra a lavorare a 25 anni e ne esce dopo 40 a 65, avrà lavorato per 40 anni, studiato a spese della comunità 20 anni e goduto la pensione per altri 20. Come dice mia madre, la pensione se l’è guadagnata. Peccato che chi ha pensato il sistema pensionistico pensava che lo Stato avrebbe mantenuto per 10 anni in media un pensionato. Questo significa che un pensionato è un costo per lo Stato. Non sto oggettivizzando gli anziani.

Oggi sono anche una risorsa. Aiutano i figli, si occupano dei nipoti, e, soprattutto, consumano. Hanno bisogno di servizi, viaggiano, fanno una vita attiva, diversamente da prima. (Domanda polemica: ma se sono attivi per andare in giro, non sarebbero attivi anche per lavorare? Risposta polemica: ma hanno lavorato tanto, è giusto che si riposino. Contro risposta polemica: io ho iniziato a lavorare a 22 anni, e difficilmente andrò in pensione, se non con il minimo, prima dei 70 anni… non ho diritto anche io a riposarmi?). La responsabilità non è certo di chi sta andando in pensione, ma abbiamo un sistema di welfare che non ha saputo leggere, nel tempo, le modifiche che stavano avvenendo nel mondo produttivo e nella qualità e aspettativa della vita. Inoltre, a parte qualche lavoro, oggi qualsiasi attività richiede meno sforzi della stessa che veniva fatta 20 anni fa.

Il sistema fiscale

Infine, il sistema fiscale. Nato sulla considerazione che la stragrande maggioranza dei lavoratori sia dipendente e che sia il datore di lavoro a pagare per lui le sue tasse, e che i liberi professionisti o fossero artigiani oppure avvocati/commercialisti/ecc. professioni che per tutto il secolo scorso erano sinonimo di grandi incassi, oggi si trova a fare i conti con il fatto che il modo di costruire un reddito è differente.

Ci sono meno dipendenti, e molti più professionisti. Abbiamo più avvocati che qualsiasi altro Stato, e questo fa si che quell’equazione avvocato = ricco, non sia più vero. Soprattutto per i giovani e per coloro che non si trovino a continuare il lavoro di famiglia.

Sono nati molti tipi di lavoro, che non sono regolamentati e spesso, come è accaduto per il web designer, c’è sempre qualche giovane ragazzo che lo fa per un tozzo di pane (anche perché non ha ancora chiaro cosa sia il significato di lavoro e di reddito) creando un problema per chi lo fa di professione, per chi ha investito in competenze e strumenti. Questo accade soprattutto dove il tessuto economico è fatto di piccole e micro-imprese, incapaci di capire cosa sia un investimento, interessate più a risparmiare (si noti la costate lotta tra i negozi di vicinato prima contro la grande distribuzione e ora contro i grandi operatori dell’e-commerce).

Anche in questo caso non si è capito che il sistema economico stava cambiando e non ci si è adeguati ma si è cercato un capro espiatorio. La terzializzazione del lavoro, il fatto che non ci sia più necessità di persone che lavorino 8 ore al giorno per 5 giorni, fa si che si sia creata una sacca di lavoro precario, che ha può avere una dinamica di produzione del reddito variabile non solo di stagione in stagione, ma di anno in anno. Che non dà garanzia al futuro. Che impedisce di programmarsi il futuro. E porta poi ad un grande conflitto tra chi ha un contratto a tempo indeterminato e chi non ce l’ha. Tra chi ha un reddito certo e che paga le tasse obbligatoriamente, e chi non ha un reddito certo e cerca di ridurre le spese.

È evidente che l’attuale sistema fiscale è, come il sistema di welfare e il sistema scolastico, rimasto fermo mentre il mondo e la società cambiava.

La pace fiscale

Capisco anche che parlare oggi di un condono fiscale sia per qualcuno, per coloro che hanno sempre pagato, un sentirsi preso in giro ma, confondere i grandi evasori con chi invece ogni giorno combatte per la sopravvivenza è un gravissimo errore che potrebbe portare ad un nuovo conflitto generazionale e ideologico come quello che divise, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, le tute blu dai colletti bianchi. Oggi si deve cercare di sanare un sistema, fare una pace fiscale che abbia l’obiettivo di ricostruire una società e un senso di collettività, che abbia il coraggio di mettere mano ai sistemi fiscale, assistenziale e scolastico in modo da dare un futuro ad una società, quella europea, che sembra destinata al declino come accadde ai grandi imperi.

 

Giacomo Zucchelli

Foto © Scenari economici, Giacomo Zucchelli

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Giacomo Zucchelli
Giacomo Zucchelli, classe 1973, laureato in sociologia dell’organizzazione, del lavoro e dell’economia. Svolge la sua professione di formatore e consulente per le risorse umane in Toscana. Negli anni ha approfondito le tematiche della comunicazione relazionale, ha realizzato ricerca sociali legate alle relazioni tra gli individui con un’attenzione particolare alle ultime generazioni. Da sempre interessato alla politica e alla sua relazione con la vita reale

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