“Coltivare la città”: in libreria un saggio di Franco Panzini

0
814

Gli orti urbani non sono una recente invenzione ambientalista. L’idea di coltivare uno spazio comunitario ha radici antiche: patriottiche, educative, sociali

Ricoprono circa due milioni di metri quadri in 77 capoluoghi italiani (dati Istat 2017). Sono gli orti urbani, una realtà in costante crescita nelle nostre città. Appezzamenti di terreno in genere di proprietà comunale, dati in concessione a cittadini e associazioni a titolo gratuito o in cambio di un piccolo canone, per coltivare ortaggi e fiori. Ogni realtà ha le sue regole: c’è chi affida questi spazi ai pensionati, chi li concede anche ad altre fasce d’età. La voglia di verde e di contatto con la natura è in aumento, soprattutto dopo la pandemia. Prendersi cura di un orto offre indubbi vantaggi: si mettono le mani nella terra e si portano a tavola i frutti ottenuti. È una gratificazione personale e alimentare, che ha anche risvolti sociali. In un orto urbano condiviso si incontrano altre persone, si collabora scambiandosi informazioni e a volte nascono amicizie.

Una “riscoperta” del passato

coltivare la cittàSe per le città contemporanee gli orti urbani rappresentano un’esigenza sempre più sentita dalla popolazione, non si tratta però di un’invenzione recente. Franco Panzini, storico del paesaggio, paesaggista e docente allo Iuav di Venezia, ripercorre l’evoluzione di questo fenomeno nel libro “Coltivare la città. Storia sociale degli orti urbani nel XX secolo” (DeriveApprodi, 16 euro, 218 pp.). Un volume denso di informazioni e curiosità.

In “Coltivare la città” Panzini parte dagli antecedenti dell’orto urbano. I primi appezzamenti di terreno concessi in città risalgono all’industrializzazione, quando masse di lavoratori si trasferirono dalle campagne alle metropoli. Gente costretta a vivere in luoghi malsani e con uno scarso accesso a cibo fresco e di qualità. Ecco che quindi fin dall’Ottocento filantropi, religiosi e politici promossero la realizzazione di orti da destinare agli operai, a volte anche come integrazione del salario. Nascono così i jardin ouvrier in Francia, gli allotment in Gran Bretagna e gli Schrebergarten in Germania.

Kindergarten

Sempre nell’Ottocento compaiono anche i primi orti scolastici. Il pedagogista tedesco Friedrich Wilhelm August Fröbel conia il termine Kindergarten che, come ricorda Panzini, oggi designa la scuola materna, ma ha origine nell’idea che il contatto dei piccoli con le piante fosse utile per sviluppare la loro intelligenza. Un concetto che prende piede anche oltreoceano, negli Stati Uniti, dove l’amore per la natura coincide con un’educazione alla bellezza e alla gentilezza.

coltivare la cittàGli orti urbani acquistano nuovo vigore con lo scoppio del primo conflitto mondiale, quando la fame inizia a serpeggiare. Le campagne, non più curate dagli uomini spediti al fronte, producono sempre meno. Le donne vengono precettate per supplire alla mancanza di braccia. In Inghilterra, per esempio, parchi, aiuole, spazi pubblici di ospedali e istituzioni diventano orti, dando un contributo decisivo allo sforzo bellico. Negli Usa Charles Pack inventa i Victory Garden, coinvolgendo ogni cittadino nel dovere patriottico di produrre cibo. “Fai crescere vitamine alla porta della cucina”, recitava lo slogan di un poster che esortava le donne a farsi orticoltrici.

Il nuovo boom degli orti urbani

coltivare la cittàCon l’inizio della seconda guerra mondiale, gli inglesi in particolare si ritrovano di nuovo sotto assedio. I tedeschi bloccano le navi che dall’Europa portano derrate alimentari a Londra e gli orti urbani sperimentano un nuovo boom. Come ricorda Panzini, il parco reale di Windsor viene convertito nel più grande campo di grano d’Inghilterra e persino Churchill si mette a coltivare patate nel giardino della sua abitazione.

Fra i tanti interessanti esperimenti di agricoltura urbana ricordati nel libro, c’è l’esperienza cubana degli Organoponicos, sviluppatasi a partire dal 1991, quando il crollo dell’Unione Sovietica portò Cuba al tracollo della sua agricoltura, basata sulla monocoltura intensiva dello zucchero. D’improvviso L’Avana si trovò senza acquirenti e senza forniture chimiche per i suoi campi. L’ingegnosità cubana riuscì a trovare una via d’uscita, coinvolgendo la popolazione nella creazione anche di orti urbani.

Come racconta Panzini in “Coltivare la città”, il nostro sogno di verdura e ortaggi a chilometro zero, magari coltivati sui tetti come ormai è consuetudine in varie metropoli, da New York all’Aja, ha radici antiche. Come antico e primigenio è il desiderio dell’essere umano di trovarsi circondato dal verde, di avere un contatto costante con le piante, di vivere la soddisfazione di essere artefice dei vegetali che poi finiscono sulla sua tavola.

 

Maria Tatsos

Foto © The Cultural Landscape Foundation, Library of Congress, Wikipedia

Articolo precedenteLa Giornata mondiale del donatore di sangue ha i colori della nostra bandiera
Articolo successivoTragedia del Mottarone, le immagini shock del Tg3
Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui