Andreani Svetlana, l’eco della guerra

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La (neo) moglie degli “angeli” che in pochi giorni hanno deciso di andare a salvare più persone possibili, familiari e non

Abbiamo intervistato per Eurocomunicazione Svetlana Andreani, moglie di Alberto Andreani (58 anni), attualmente funzionario delle Nazioni Unite a Vienna ed ex poliziotto della squadra mobile di Firenze, che ha deciso di partire per l’Ucraina per salvare la madre e il fratello di sua moglie. Tornato poi con oltre quaranta profughi, tra donne e bambini (anche neonati), con gatti e cani. Alberto era inizialmente partito in compagnia di un amico con cinque taniche di benzina, a bordo di una Ford Transit da otto posti. Sia la suocera che il cognato erano bloccati a Kharkiv a causa dei bombardamenti.

Andreani è riuscito ad uscire dall’Ucraina (grazie a un gruppo di supporto (Effugium, costituito da lui stesso) alla guida di un convoglio costituito da un grande bus con cinque macchine, portando in salvo dalle bombe e dalla guerra donne, anziani e bambini attraverso la Romania e l’Ungheria. Ora sono tutti a Vienna, una ventina, nella sua stessa casa di poco più di cento metri quadri.

Sono più di 2,7 milioni i rifugiati scappati dall’Ucraina, Paese natio di Svetlana Andreani, prevalentemente verso l’Europa, da quando la Russia ha lanciato la sua invasione. Si tratta della più grande emergenza umanitaria in Europa dal secondo dopoguerra. Cosa ha provato nel momento in cui si è appresa la notizia dell’invasione russa?

«Ho provato un forte sgomento sapendo che i miei familiari erano a Kharkiv, a soli 80 chilometri dal confine russo. Ho pensato che quella sarebbe stata una delle prime città a essere colpita, e infatti avevo purtroppo ragione. Voglio precisare che ho provato sgomento ma non sorpresa. La guerra in Ucraina è iniziata, nella totale indifferenza internazionale, nel 2014 e non nel 2022. In tutti questi anni il resto del Mondo faceva finta di non vedere. Ora sono tutti pronti ad aiutare ma nel 2014 veramente nessuno si sarebbe aspettato tutto ciò che succede oggi. In Ucraina imploravamo giustizia ma le nostre parole andavano nel vuoto».

Appena venuto a conoscenza dei primi attacchi in suolo ucraino, suo marito, Alberto Andreani, ha deciso immediatamente di partire nonostante i grandi rischi. Ha tentato di fermarlo?

«Certo. Però mio marito è un uomo determinato. Uno che parla poco ma fa molto. È giudizioso, non imprudente, molto riflessivo. Purtroppo, quando prende una decisione è difficile fermarlo. La sera della sua partenza è stato molto difficile salutarlo».

Come sappiamo Kharkiv è stata totalmente distrutta dai bombardamenti dello scorso 4 marzo. Nell’intervista fatta a suo marito (visionabile alla fine dell’articolo) è risultato che la sua famiglia, a causa della ferocia e della rapidità dell’attacco, si era dovuta rifugiare nello scantinato senza cibo né luce. Inoltre, i suoi parenti non avevano intenzione di essere portati in Austria, «preferiamo morire nella nostra casa» – avrebbero affermato. Come sono stati convinti a lasciare tutto e mettersi in salvo?

«I miei familiari avevano interrotto le comunicazioni da giorni. Non volevano più parlare con me. L’ultima volta che ho parlato con mia madre mi ha detto «figlia mia. Sono già morta. Non capisco perché insisti a chiamarmi e a pretendere di seppellire una morta in Austria. Io voglio rimanere sepolta qui. Non mi chiamare più, ti prego». E da quel giorno, non mi hanno più risposto al telefono».

«A quel punto mio marito ha deciso di partire, di raggiungerli e di prenderli fisicamente con lui. Una volta giunto al centro dell’Ucraina, mio marito ha chiamato la mia famiglia con un numero di telefono ucraino e loro hanno risposto. Gli ha detto: «Sono qui in Ucraina, ormai vicino a voi. Preparatevi perché vi vengo a prendere». I miei familiari conoscono bene mio marito. Sanno che è capace di qualsiasi cosa. Questo è stato uno shock emotivo per loro. Li ha risvegliati da un torpore che non li faceva più ragionare. È stato a quel punto che si sono decisi a partire».

Nella missione di salvataggio sono state coinvolte ben 90 persone in pochissime ore: un team costituito da una parte legale, amministrativa, logistica e operazionale con vari esperti nel settore. Pensa che i 40 anni di esperienza di Alberto siano stati decisivi nell’organizzare la missione in così poco tempo?

Andreani«Penso di si. Mio marito ha molta esperienza nei teatri di crisi e di postconflitto. Nella sua lunga esperienza in Italia e all’estero ha conosciuto centinaia, forse migliaia di persone che hanno collaborato con lui. Anche io, con i nostri figli piccoli, l’ho raggiunto spesso, per breve tempo, in posti difficilissimi come il Kosovo e in tutti i Paesi dei Balcani, la Cambogia, la Georgia, l’Armenia, e anche in Russia dove abbiamo vissuto per quasi quattro anni. Il giorno prima di partire l’ho sentito effettuare moltissime telefonate a persone che aveva nella sua rubrica. Non avevo capito ancora il motivo ma appena mi ha detto che voleva partire, ho capito tutto».

Alberto, oltre alla sua macchina, è riuscito a portare in salvo 5 macchine e un bus carico di donne, bambini e anziani. Come ha passato quei giorni, sapendo che i suoi cari e suo marito stavano attraversando un’area così rischiosa?

«Adesso il peggio è passato. Ha rischiato molto quando il 6 marzo la città di Vinniza (Vinnycja) dove lui si trovava è stata bombardata. Otto missili a lunga gittata sono piombati non molto lontano da dove si trovava. Mi ha chiamato e mi ha detto di stare bene e di non preoccuparmi perché lui era già al sicuro in un bunker».

In 22 anni di vita con suo marito, avete condiviso molte esperienze: prima in Kosovo, poi Cambogia e ora a Vienna. Vi siete inoltre sposati 4 giorni prima della sua partenza in Ucraina. Com’è vivere quotidianamente accanto a un uomo che svolge un lavoro così rischioso?

«I primi due anni della nostra convivenza mio marito era in servizio alla Squadra mobile della Questura di Firenze. Lavorava quasi sempre di notte e spesso si trovava in situazioni ad alto rischio. Quando iniziava a lavorare, non sapevo mai quando sarebbe tornato a casa e lui spesso minimizzava la natura di quello che faceva per non farmi stare in pensiero. Alla Squadra mobile lavoravano veramente tanto ma con tanta passione. Ero quindi già abituata fin dai primi giorni con lui. Poi nel 2002 decise di partire per il Kosovo. E da li non si è mai fermato veramente anche perché, seppur di base a Vienna, con l’Osce viaggiava spesso in ogni angolo del Mondo. Per dieci lunghissimi anni è stato più all’estero che a casa. Spesso gli portavo i vestiti puliti all’aeroporto di Vienna, quando lui era in transito da un Paese all’altro».

Dall’inizio dell’invasione russa, 50 mila profughi sono entrati in Italia, prevalentemente donne e bambini. Riesce a immedesimarsi nei panni dei suoi compatrioti? Quali misure dovrebbero essere attuate per fornire un reale aiuto ai rifugiati?

«Provo a immedesimami perché vivo quotidianamente quello che vivono i miei parenti. Penso che però non ci si possa mai immaginare cosa provano veramente queste persone. Vi posso solo dire che quasi tutti hanno forti disturbi da stress post traumatico. I miei familiari non dormono, escono a qualsiasi ora della notte in giardino a fumare e a piangere. Le misure che dovrebbero adottare sono molte. Prima di tutto penso che gli Stati debbano prendere cognizione di essere di fronte a un esodo di massa senza precedenti. Non si possono implementare protocolli di assistenza e inclusione messi a punto per altri gruppi a rischio che in passato si muovevano attraverso gli Stati e che provenivano da culture diverse e da Paesi diversi».

«Gli ucraini che si lasciano dietro orrore e macerie sono principalmente donne, bambini e tanti anziani, famiglie come le nostre, che in poche ore hanno perso tutto. Non parlano la nostra lingua. Hanno perso il lavoro, la casa e la loro vita. Integrare queste persone è difficilissimo perché, aprendo le case e accogliendoli nelle famiglie, senza una preparazione specifica, si rischia di fare danni su danni. Bisogna mettere a punto strategie in modo rapido e che tengano in considerazione tutti questi fattori, altrimenti presto ci troveremo davanti all’ennesimo fallimento di un piano di inclusione sociale, e questa volta di larga scala».

Nell’intervista precedente a Raphael Mercuri, abbiamo potuto notare come una delle cause che lo hanno spinto a partire sia stata la voglia e la speranza di lasciare un futuro sicuro e di pace a sua figlia. Pensa che questo pensiero sia anche condiviso da suo marito? Cosa si augura per il futuro dei vostri figli?

«Mio marito ha sempre messo a repentaglio la sua vita per difendere i deboli, i gruppi più a rischio e indifesi. Penso che sicuramente avere figli abbia giocato un ruolo importante, ma io l’ho conosciuto quando ancora non aveva figli, ed è sempre rimasto la stessa persona che è al giorno d’oggi».

 

 

Cecilia Sandroni

Foto © Andreani

Video © Eurocomunicazione

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Cecilia Sandroni
Fondatrice della Piattaforma internazionale ItaliensPR. Cecilia Sandroni, per formazione semiotico del teatro, è membro della Foreign Press di Roma come Italienspr (italienspr.com/global press), oltre ad essere un'esperta di relazioni internazionali nella comunicazione. Le sue competenze spaziano dal teatro-cinema, alla fotografia, all'arte e al restauro, con la passione per i diritti umani. Indipendente, creativa, concreta, ha collaborato con importanti istituzioni italiane e straniere per la realizzazione di progetti culturali e civili.

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