Terremoto in Siria, un dramma nel dramma (dimenticato)

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Terremoto in Siria

Testimonianze di siriani che hanno parenti nei territori colpiti dal forte sisma, raccolte a Milano

In un esercizio commerciale gestito da un siriano ne entra un altro. Il primo parla perfettamente l’italiano, da anni vive a Milano. Il secondo sa solo poche parole, giusto come si dice “Ciao” e, forse, poco altro. Per il resto annuisce con il viso, più per una percezione dettata dell’emotività e per una forma di empatia, che per una comprensione reale di quello che stiamo dicendo. 

Arriva nel clou di una conversazione, mentre io e un amico italiano sorseggiamo un tè alla menta che ci è stato gentilmente offerto. A corredo anche i biscottini turchi che arrivano da Istanbul e non da Damasco, per ragioni facilmente immaginabili. Nadir, nome di fantasia del proprietario del negozio, ci racconta del terremoto devastante che si è innescato su una piaga dolorosissima che miete sofferenza da mesi, anzi anni. I suoi risiedono in Siria, a Damasco. Sono sopravvissuti al terremoto che ha colpito senza pietà l’area più a nord, radendo al suolo almeno 250 villaggi, decine di campi profughi e quattro città: Aleppo, Hama, Latakia e Idlib. Ma le scosse le sentono eccome i suoi familiari, pure quelle (numerosissime) di assestamento.

Nadir è al telefono con il fratello e la terra pulsa mentre parlano al cellulare. Si capisce dal suo tono di voce, dallo sconquasso percepibile a distanza e, soprattutto, dal legame di sangue che nulla riesce a filtrare.

Il terremoto è un dramma nel dramma 

I siriani da mesi soffrono il freddo, loro che ne avrebbero di combustibile per scaldare le loro case. Invece sono spesso al gelo, oppure, quando va molto bene, utilizzano ilbirin”, un carburante decisamente più economico delle costose miscele a base di petrolio. Fabbricato nella zona di Armanaz, nella parte nordoccidentale della provincia siriana di Idlib, è un derivato dagli scarti delle olive. Muoversi in auto non se ne parla. La benzina spesso non c’è. Arriva, mediamente, ogni venti giorni ed è carissima. Così i parenti di Nadir non sono potuti nemmeno andare a un funerale di un amico.

Da mangiare tanto meno. L’embargo imposto ad Assad significa concretamente che una bambina di sette, otto anni si contorce dalla fame e la notte si mette un cuscino sulla pancia per attutire il dolore. Avere fame fa male, non solo al corpo. Innesca un sistema di strategie di sopravvivenza psicologica. È uno stratagemma, semplice e atroce, che una bambina mette in atto per non arrecare ulteriore preoccupazione ai genitori, già provati da una vita durissima.

La piccola Dara (altro nome di fantasia, molto diffuso in Siria) nasconde il viso sotto le coperte la sera e piange. A Nadir questa storia è stata raccontata. Forse qualcuno l’aveva intuita. Forse è semplicemente una storia così comune che si conosce a prescindere da qualunque esplicita narrazione. Nadir, il giorno che l’aveva udita (un racconto di poche parole e tanti silenzi al cellulare), si era ritirato in un angolo per mezza giornata. Come se un proprio caro se ne fosse andato. 

E poi l’altro siriano che era entrato. Quello che non sapeva l’italiano e attendeva notizie dalla Turchia. I suoi stavano là, proprio nel sud, vicino all’epicentro del dramma, a Gaziantep o giù di lì. Dove Erdogan aveva costruito, nel giro degli ultimi due o tre anni, alcuni palazzi proprio per i profughi. Una sorta di edilizia popolare un po’ improvvisata e a basso costo, per mostrare al Mondo che era in grado di fare le cose per bene perché i campi profughi a cielo aperto non sono una bella cosa. Questo me lo ha raccontato un amico viaggiatore che a maggio là ci era stato, attratto dal desiderio di comprendere quella zona di Mondo, maledettamente affascinante (vogliamo parlare, solo per fare un esempio, de “la ragazza zingara” e del museo di mosaici più importante del Pianeta o di un castello romano crollato in una manciata di secondi?) e terribilmente complicata. 

Lui, il siriano che non sa l’italiano, Kamal (altro nome inventano, ma molto comune) aspettava la telefonata per sapere se i suoi fossero vivi. 

Intanto in Siria si scava a mani nude, le sanzioni non sono state sospese, il confine con la Turchia è sbarrato e i soccorsi non arrivano. Come se l’inferno cercasse una sua apoteosi, non è mancato un raid di cannonate su Marea, a venticinque chilometri da Aleppo, a poche ore dal catastrofico sisma.  

 

Paola Scaccabarozzi

Foto © Tempi, Save the Children, Il Riformista

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Paola Scaccabarozzi
Giornalista professionista. Scrivo di salute, scienza e esteri. Collaboro da anni con numerose testate italiane e straniere e siti web. Leggo, viaggio, racconto storie e raccolgo testimonianze.

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