La concezione della natura nella poesia

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Natura

Da Leopardi, Pascoli e Campana, il passero solitario di Recanati e il fanciullino di san Mauro

La rappresentazione della natura in Pascoli va al di là dell’idillio o della georgica virgiliana: è una grande metafora di un mondo invisibile che il poeta riesce a portare alla luce. La natura allora non è un semplice scenario, ma un organismo vitale e dinamico da cui scaturisce simultaneamente la poesia che si trova nella realtà stessa, la poetica delle cose con riferimento al decadentismo di Gozzano, ma che poi si allontana perché non legata ai salotti borghesi, alla malattia e alla morte del grande poeta torinese. Ma in Pascoli della realtà agricola di San Mauro, non troviamo costruzioni immaginarie. La poesia non è infatti invenzione, scoperta, intuizione o emozione del poeta: tutte le cose della natura e della realtà meritano l’attenzione del poeta-fanciullo.

Pascoli e il simbolismo

Chi è il poeta-fanciullo: “Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non un uomo di Stato o di corte. A costituire il poeta vale infinitamente più il sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto di un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello . Del pubblico, non pare che si accorga”. (da “Il fanciullo” cap. XI)

Dunque per Pascoli il poeta è un fanciullo divino. Egli percepisce il mondo circostante attraverso i propri sensi, non offuscati dall’attività pratica, del guadagnare dalla ragione, dal progresso ed è libero dalla modernità. Persino la cronaca e la rievocazione storica acquisiscono ai suoi occhi un significato diverso, più profondo, più sentito. E qui riecheggia l’influenza del simbolismo francese e soprattutto di Baudelaire:

“La natura è un tempio dove i pilastri viventi
lasciano talvolta sfuggire confuse parole
l’uomo vi passa lungo foreste di simboli,
che lo fissano con sguardi familiari”
(Corrispondance da “I fiori del male”)

L’opera poetica di Baudelaire, che influenzò Pascoli, da non giudicare un poeta provinciale o riduttivo della “Cavallina Storna”, è una sintesi perfetta del simbolismo, afferma il poeta Davide Rondoni: «ciò che vediamo non è che un simbolo, gli oggetti, la natura, sono simboli che parlano dell’uomo, risvegliano i sentimenti e i ricordi».

Il poeta è come una cartina al tornasole e riprende la natura e la ripropone in simboli. L’obiettivo non è costruire metafore o spiegare i concetti, ma utilizzare le parole, i versi, il ritmo, il suono. La poesia di Pascoli parla la stessa lingua di Baudelaire e non è accademica. Vi è la stessa capacità evocativa della parola, la stessa idea di una poesia fatta di profumi, colori e suoni più che di concetti. Quella di Pascoli è una lingua semplice e al tempo stesso ricca di significati. Recuperare la trama sonora, gli effetti musicali del mondo circostante. Una lingua fatta di colori e percezioni continue: di attimi, di simultanee emozioni traslitterate sul foglio come in una fotografia.

L’idealizzazione pascoliana della vita campestre

Altro aspetto della natura pascoliana è quella dei cicli stagionali. Un film del grande regista formalista russo Dovcenko, dal titolo “Zemlia, la Terra”, ci può far comprendere, pur essendo una cultura diversa e lontana, il senso di abbandono al destino delle stagioni. La ciclicità è presente nella poesia di Pascoli che risente per certi aspetti anche l’influenza leopardiana. Oggi l’inquinamento atmosferico ha distrutto anche i valori simbolici ed esistenziali del significato di stagione. Ma il Pascoli figlio di Romagna, vede nel lavoro agreste, un rito liturgico, come nella processione dei kulaki russi, e il tempo si scandisce lentamente.

In “Myricae”, “Canti di Castelvecchio” e “Poemetti” il Pascoli si ispira a Virgilio e Orazio e anche il suo socialismo e umanitarismo, non vengono vissuti su una riflessione sociale, sulle masse e sul mondo del lavoro contadino, ma come socialismo umanitario anch’esso di ispirazione francese, nell'”Umanesimo integrale” di Jacques Maritain. Ma Pascoli è anche più Utopista, in quanto in lui vi è un desiderio umano di conciliazione fraterna dell’umanità e dell’abolizione delle classi sociali.

La natura

NaturaSi è già fatto riferimento alla stagionalità paesana nella poesia di Leopardi. In realtà, come ha scritto Andrea Galgano nel suo libro “Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido“, non vi è sempre una esatta e meccanica corrispondenza fra vita, opere e contenuti fra i due poeti, per cui il confronto deve tener conto degli eventi biografici e storici che hanno influenzato le loro migliori espressioni artistiche.

L’infanzia felice di Leopardi e Pascoli, con l’interruzione per quest’ultimo per l’uccisione del padre, quando il poeta aveva 12 anni. Nell’altro nasce l’immagine della natura associata a ricordo e riflessione. In Pascoli prevale una visionarietà frutto delle fiere paesane di fine Ottocento a cui si coniugano i drammi famigliari. Inoltre, in lui, vi è il legame con la terra, che segue il modello familiare rurale e contadino, a differenza della vita austera del giovane Leopardi, sprofondato in uno studio matto e disperato.

Vi sono poi i concetti di malattia e morte, che in Pascoli assume un significato decadente e i morti sono figure che accompagnano la vita dei vivi. Poi vi sono altri fattori, come la presenza e assenza del padre, ben analizzato de Massimo Recalcati. In Pascoli, dopo la morte del padre, vi è la necessità di ricostruire il nido famigliare, in Leopardi il distacco dal padre Monaldo è voluto, ma in realtà vi è sempre un filo sottile che li collega. Un vuoto parentale in Pascoli che non produce maturazione della sua casa a Castelvecchio di Berga, lucchesia, ma anche campagne nella zona di confine con la provincia di Pesaro, in quel di Urbino e dei suoi “Aquiloni”.

La natura maledetta di Dino Campana

Vi sono alcuni elementi che accomunano anche parzialmente Pascoli al poeta di Marradi, Dino Campana, anche lui visionario, simbolista ma soprattutto espressionista. Con “I canti orfici”, esaltando il cromatismo del verso, vuole far sentire la sua tremenda voce a tutti e si autopubblica le sue poesie, un gesto eroico, come in terra di Romagna faceva Ligabue, anche lui artista impetuoso e fragile, sognatore e fin troppo crudo nel realismo. Dino Campana, anche se non studiato nelle scuole è un poeta europeo che unisce il simbolismo francese di Verlaine e Rimbaud con le suggestioni egotistiche di Walt Whitman, il poeta di “Oh capitano, mio capitano”.

Anche in Campana, come in Pascoli e Leopardi, dominante è la malattia. Solo che la sua esperienza deriva dall’internamento in un manicomio, il primo nel 1906 a Imola, per le sue stranezze e irrequietudini. Dino è incapace di vivere una vita normale e la similitudine a Ligabue è giusta. Il vagabondaggio, di Città in Città, molto nei luoghi romagnoli, ma anche in Toscana, nell’Italia settentrionale, in Svizzera, a Parigi e in Argentina.

Il suo capolavoro “I canti orfici” consegnati in unica copia nel 1913 a Soffici e Papini, vanno persi, ma Campana li riscrive a memoria e vengono pubblicati a sue spese a Marradi nel 1914. L’opera si accende di frammenti e di testi lunghi, seguendo frammenti e simbolismi del poeta e del suo inconscio: è un simbolismo denso e pieno di rimandi esoterici. La formazione di Campana è più internazionale rispetto a quella del Pascoli, solo legata al simbolismo francese. In lui vi è l’influenza di D’Annunzio, Carducci, Palazzeschi, Nietzsche e i decadenti francesi. Sergio Antonelli nel suo saggio “Aspetti e figure del novecento”, ne dà una definizione: “Mentre altri poeti hanno accettato pacificamente la crisi a cui li costringono la loro condizione di eredi dell’Ottocento, in Campana vi è un superamento della tradizione e una apertura al Mondo”. È un poeta fuggitivo come fu Leopardi.

 

Paolo Montanari

Foto © Legambiente, Sapere, Skuola

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