“Pasolini nella Città del cinema” di Lino Miccichè

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Pasolini

Il rapporto con Roma e Cinecittà, le regole ferree cinematografiche, ma anche le sconfinate periferie extraurbane

Il corpus cinematografico di Pasolini è un insieme di dodici lungometraggi, quattro cortometraggi inseriti in film a episodi e sei documentari, oltre a sceneggiature parziali come quella su San Paolo o complete destinate ad altri registi.

La domanda di fondo che si è posto Lino Miccichè, noto critico cinematografico e fondatore della Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, è stata: perché Pasolini, nato come poeta e scrittore, ha scelto di fare il cinema?. Nel libro “Pasolini nella Città del cinema”, edito Diarkos, Miccichè vuole rispondere a questo interrogativo e ad altri. Un tentativo arduo di analizzare tutta l’opera cinematografica di Pasolini, facendo emergere il valore artistico, la genesi, le contraddizioni e gli intenti del grande intellettuale friulano.

Personaggi e ambientazioni familiari

Il libro è anche un testamento spirituale di Lino Miccichè, ormai scomparso da diversi anni, nei confronti di Pasolini e di Visconti a cui ha dedicato un altro saggio. E del poeta-regista ama più i cortometraggi, per la libertà di linguaggio e in particolare “La ricotta”. L’analisi dell’opera pasoliniana è svolta anche da un punto di vista didattico, quando Miccichè, docente di storia del cinema all’università di Siena, analizzando fotogramma per fotogramma l’opera pasoliniana, rendeva i personaggi e ambientazioni familiari.

Pesaro fu sede di un convegno storico e Pasolini in quella occasione espose il significato del “cinema di poesia”. Fu delicato nell’esporre il suo pensiero; una delicatezza che aveva nel suo tratto umano e nei confronti del prossimo. Una purezza d’animo che pervase tutta la sua opera anche nei periodi più bui. Le contraddizioni di uno scrittore di sinistra come lui: l’opinione sull’aborto o sugli scontri di Valle Giulia, evidenziano una complessità nel suo pensiero.

Ma la purezza d’animo di Pasolini proviene dal dolore per la scomparsa prematura del fratello. Tutto ciò ha provocato sensi di colpa che il poeta-regista è riuscito a contenere solo attraverso il candore delle sue opere. Vita e morte come un viaggio metaforico, che nel film si traduce nel montaggio, costituito da frammenti infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite, quello che la morte opera sulla vita. Dunque una purezza umana colpita dalla voracità del capitalismo e la ricerca nel suo Friuli, le borgate e la miseria in India.

Pasolini e la Città del cinema

Il rapporto di Pasolini con Roma e Cinecittà, le regole ferree cinematografiche, ma anche le sconfinate periferie extraurbane. Era come i contadini che arrivano in città timorosi, Pasolinivoleva vendere la sua poesia e l’insegnamento appreso all’Università di Bologna. Dal 1961 si trasferì con la madre Susanna a Roma. Ma cittadino vero e proprio della Città eterna Pasolini non lo fu mai, in quanto ne rifiutò le leggi formali e merceologiche. Addirittura in lui il tentativo di adattare la Città al suo cinema, che secondo Balazs era arte del far vendere, si chiude con un film che fa male a chi lo guarda. Pasolini si scontra nella Città del cinema con le ragioni industriali. Ecco perché accettò solo le periferie romane e i ragazzi di vita.

Un cinema nuovo che nei primi anni Sessanta teorizzò nella Mostra del nuovo cinema di Pesaro nella “Poesia nel cinema” e che aveva già costruito mentalmente accanto alle borgate romane e ai suoi personaggi, i giovani considerati puri dagli ingranaggi capitalistici e borghesi, che poi si riveleranno le prime vittime del conformismo e della televisione. Eppure la morte violenta di Pasolini non ha lasciato grandi insegnamenti alle nuove generazioni, anche se Moravia nell’orazione funebre lo definì «l’ultimo poeta civile del nostro Paese». Tutto questo perché vi è una damnatio memoriae sul più grande intellettuale del Novecento. Convegni, libri che diventano atti celebrativi circoscritti agli addetti ai lavori. Eppure nei suoi dodici lungometraggi a soggetto si sono riscontrati i valori del nuovo cinema italiano. I testi teatrali di Pasolini fondati su una moderna drammaturgia tra classicità e modernità che si coniugavano con gli scritti giornalistici in cui esaltava una nuova moralità.

Le notti pasoliniane

Eppure la vita di Pasolini è stata attraversata da scandali e aule di tribunale e anche la critica letteraria si interessava più delle notti pasoliniane che del suoi scritti. In realtà Franco Fortini auspicava all’indomani della scomparsa del poeta-regista che prevalesse il valore della sua opera omnia. Nel suo saggio Lino Miccichè ha voluto studiare l’attività pasoliniana, soprattutto nella sua origine di poeta e pittore friulano fino a uno sviluppo successivo mai sistematico per un intellettuale che agiva in cinque campi di interesse. È sicuramente più facile costruire un catalogo pasoliniano che la ricostruzione critica.

Negli anni Cinquanta Pasolini si concentra sui punti fondamentali della sua poesia e della nascita della trilogia del cinema pasoliniano da “Accattone”, “Mamma Roma” alla “Ricotta”, dei romanzi dei ragazzi di vita. Un punto di partenza dialettico che rompe con il passato neorealista e della commedia all’italiana. Nel periodo 19641966, nasce la fase più ideologica del cinema di Pasolini con “Uccellacci e uccellini” e “Il Vangelo secondo Matteo” un film meno dialettico del primo, ma che conserva una carica rivoluzionaria che ebbe come fonte ispiratrice la Pacem in terris di papa Giovanni XXIII. Poi vi è un passaggio all’immissione, all’erogazione e alla gioiosa materialità della carne che si sviluppa nella Trilogia della vita e soprattutto nel “Decamerone” tratto dal Boccaccio. Una dualità tra eros e morte, che diviene sempre più forte ed esasperante fino al pessimismo sull’uomo di Salò, dove si perde il valore del sentimento e del tempo.

Paolo Montanari

Foto © Giustizia insieme, Amazon, Italiana, Culture Roma

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