Intervista ad Antonio Iovane, autore di “Il carnefice”

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Il giornalista e scrittore Antonio Iovane per anni ha indagato sulla figura di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine. Racconta la sua vita in un libro che si legge come un romanzo

 

Si sono da poco spenti i riflettori sulla commemorazione dell’80esimo anniversario dell’eccidio nazifascista delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. Trecentotrentacinque vittime, ossia 10 italiani per ciascuno dei 33 soldati del battaglione Bozen morti nell’attentato di via Rasella, più altre cinque vite, spezzate senza motivo. Un orrore pianificato e messo in atto da Herbert Kappler e dal suo braccio destro Erich Priebke, poi riuscito a scappare in Argentina. Nel grazioso borgo di Bariloche, affacciato su un lago che ricorda la Germania, il capitano delle SS ha vissuto indisturbato con la moglie e i due figli per 50 anni, finché dopo essere stato scovato, la giustizia va a reclamarlo. Nel 1995 è estradato in Italia, seguono processi e condanne, fino alla morte nel 2013, ormai centenario.

cover_il_carneficeAl boia delle Ardeatine Erich Priebke il giornalista e scrittore Antonio Iovane ha dedicato il libro “Il carnefice” (Strade Blu, Mondadori, 21 euro). Frutto di una meticolosa ricerca, durata oltre due anni con interviste ai familiari delle vittime e precise ricostruzioni storiche sulla vita del capitano nazista, il libro di Iovane racconta la vita di quest’uomo che a 31 anni ha eseguito un ordine così efferato, senza porsi domande, trascorrendo il resto della sua vita senza rimorsi di coscienza, convinto di essere nel giusto. Dal racconto puntuale di Iovane, emerge una figura agghiacciante, priva di umanità ed empatia nei confronti del prossimo.

Un uomo capace di provare sentimenti solo nei confronti delle persone a lui care. Priebke è un carnefice che non ha mai smesso di ragionare da carnefice, una persona incapace di evolversi e cambiare.

Come è nato il suo interesse per l’eccidio delle Fosse Ardeatine e per Priebke?

«È sedimentato in me per decenni. Nasce con mio nonno, il cui migliore amico, Luigi Pierantoni, fu vittima alle Fosse Ardeatine. Sono cresciuto con questo senso di cupezza, giocavo sulla scacchiera su cui loro due giocavano, il nonno vaneggiava sul suo amico, che lui in qualità di medico era stato chiamato  a riconoscere. Con mio nonno da ragazzino non ho mai parlato di Erich Priebke, ma in seguito da adulto è il mio mestiere che mi ha fatto sentire la voglia di raccontare questa storia. La folgorazione è stata verso la fine degli anni Novanta, quando ho visto un’immagine di Priebke sullo scooter del suo procuratore legale. Mi ha impressionato quest’uomo ricomparso dopo 50 anni. È stata la miccia per scrivere di lui. La sua storia è straordinaria da tutti i punti di vista. E il processo ha rappresentato un momento di spaccatura di questo Paese, con la comunità ebraica che occupò il tribunale militare. È un passato presente nella vita di tutti, una vicenda non elaborata e superata».

Quando ha iniziato questo immenso lavoro di ricerca?

«Mentre stavo ancora scrivendo il mio libro precedente su Luigi Tenco, aveva comprato l’autobiografia di Erich Priebke, in cui lui cercava con la sua narrazione un’assoluzione da parte dell’opinione pubblica. Cercava di rendersi simpatico omettendo tante cose. Volevo capire chi fosse veramente. Non era un uomo di potere come tanti gerarchi, era un debole. Uno di quelle persone che in certe condizioni storiche traggono forza dall’appartenenza a una comunità, che si cementa attraverso un’ideologia».

Chi erano le vittime delle Fosse Ardeatine?

Fosse_ardeatine«335 persone di tutte le classi sociali. Sono la Spoon River della nostra democrazia nata dalle ceneri del fascismo, che confluirà nella nostra carta costituzionale. C’erano partigiani, ebrei, persone di idee politiche diverse».

Fedele Rosa, la 336esima vittima: chi era?

«L’unica donna. Un’ultrasettantenne che quel giorno raccoglieva cicoria intorno alla cava di pozzolana. Era sorda: si avvicinò troppo, le fu intimato da un soldato di fermarsi, non sentì e lui le sparò. E morì».

Le donne erano escluse dalla rappresaglia nazista. Che ruolo hanno avuto?

«Hanno fatto in modo che la memoria dei loro cari e della loro lotta non morisse con le mine che hanno seppellito marito mariti e figli alle Fosse Ardeatine. In tanti anni, hanno custodito la memoria e rivitalizzato le loro idee. E poi, non dimentichiamo che fra i partigiani c’erano comunque tante donne».

Perché il tema dell’attentato di via Rasella è stato così divisivo?

«L’eccidio è stato compiuto dai nazisti, ma i fascisti come Caruso contribuirono alle liste. Molte persone catturate e finite in via Tasso si trovavano lì per le delazioni fasciste. La vicenda di via Rasella è divisiva per ragioni futili. La destra ha sostenuto che ci sono state le Fosse Ardeatine perché i partigiani autori dell’attentato non si sono consegnati, che c’erano i manifesti che li invitavano a farlo per evitare rappresaglie. Ma non è così: i nazisti hanno agito in fretta, di nascosto, temevano l’intervento dei partigiani. La notizia dell’eccidio è stata divulgata a fatto avvenuto. Non c’è la regola che uno debba consegnarsi dopo un attentato. Se si è in guerra, non si cede al ricatto. Storicamente la destra ha cercato di rompere l’unità partigiana mettendo in discussione la bontà della loro azione. Anche i partigiani avranno commesso errori, ma la Resistenza è un valore che non si può mettere in discussione nella sua totalità».

erich_priebkeWiesenthal e Klarsfeld, i cacciatori di nazisti, dicono di aver informato il ministro della Giustizia italiano già alla fine degli anni Ottanta della presenza di Priebke a Bariloche. Perché non è successo niente?

«È una loro affermazione, non ci sono documenti che lo attestino. Non si voleva comunque catturare Erich Priebke (nella foto, a sinistra) perché non c’era interesse durante la Guerra Fredda a rinfacciare alla Germania, perno della Nato, i suoi errori. Inoltre anche l’Italia aveva commesso errori in guerra: se avesse accusato gli altri, avrebbe ricevuto lo stesso trattamento. E si seppellì tutto nell’armadio della vergogna».

È interessante la sua riflessione nel libro su come agisce un regime totalitario per compiere i suoi crimini. Servono gli uomini forti, o la gente comune?

«La gente comune è essenziale per qualsiasi regime. Anche oggi i regimi dispotici esistenti si poggiano su tante armi: censura, disinformazione, messa a tacere dell’opposizione. Ai propri sostenitori, si mostra una realtà diversa dalla verità. Così accadeva anche allora. Soldati come Priebke trovavano nell’ideologia un terreno di appartenenza che li faceva sentire eletti. Ho intervistato una volta un nazista di allora e mi ha detto di essere entrato nelle SS perché erano l’élite, e lo facevano sentire importante. Anche Priebke si sentiva un eletto: da interprete della Gestapo era finito nelle SS, doveva sentirsi un miracolato. Credeva nel regime e in Hitler. Mi ha appassionato una figura del genere perché non era il classico fanatico, più spaventoso».

Fino alla fine, Priebke non si è mai pentito.

«No. È arrivato a chiedere la grazia, ma il presidente della Repubblica la concede su parere dei parenti delle vittime, che avrebbero voluto che Priebke chiedesse perdono, cosa che  non ha mai fatto. Priebke era convinto di non aver avuto alternative e i morti delle Fosse Ardeatine erano per lui terroristi. Quest’idea che aveva da giovane si è sclerotizzata ed è rimasta inalterata anche 50 anni dopo. Non c’è stata traccia di pentimento in lui. Solo il nipote Tomas Ramon Ortiz Priebke, figlio di suo figlio Jorge, ha voluto liberarsi del peso del cognome del nonno».

 

Maria Tatsos

Foto © Wikipedia, Antonio Iovane

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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