Altro che mandato forte per la Brexit, elezioni mortificanti per la May

0
352

Assediata dalla stampa e da quasi tutte le posizioni politiche, compresi i Tory, la premier si aggrappa ai 10 deputati dell’ultradestra unionista nordirlandese del Dup

Aveva portato il Paese al voto per ottenere quel forte mandato popolare che le permettesse di arrivare al tavolo della trattativa per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea con la voglia d’imporre una “Hard Brexit” ai rappresentanti dell’Ue, quasi un anno dopo il referendum del 23 giugno 2016. Finisce con una Theresa May assediata, costretta a chiedere soccorso ai nordirlandesi della destra unionista, perdendo per strada quasi tutti i suoi fedelissimi (Fiona Hill e Nick Timothy, definiti dai media la Lady Macbeth e il Rasputin di Downing Street). Ma soprattutto cercando in tutti i modi di tenersi stretta la carica di primo ministro.

Una situazione che perfino i simpatizzanti europei o maggiori fautori del “Remain” nella Ue speravano non accadesse. Perché l’immagine che ne esce della politica britannica è semplicemente disastrosa. Un sistema elettorale famoso in tutto il mondo per la netta distinzione fra maggioranza e opposizione, per la semplificazione di posizione e ruoli, che incredibilmente porta a un risultato a dir poco confusionario. Oddio, sono tornati protagonisti i due “storici” partiti che si sono succeduti nel governo del Paese, ma dopo 48 ore dalle votazioni nulla è certo sul destino (politico) del Paese.

Margaret Thatcher

Dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, essere Theresa May a succedere a se stessa, ma dando vita a un precario governo di minoranza. Fra veti e ultimatum che salgono dalle file del suo stesso Partito Conservatore (Tory) e che l’hanno già costretta a sacrificare i due consiglieri più fidati e influenti, ma anche più temuti e odiati: Nick Timohty e Fiona Hill. «Un governo né forte, né stabile», come ha sentenziato cinicamente Faisal Islam, political editor di SkyNews, facendo il verso a colei che aspirava a diventare la nuova “lady di ferro”, prima donna primo ministro dopo Margaret Thatcher.

Dunque si va verso un “Hung Parliament”, un “Parlamento impiccato” alla necessità di dar vita a fragili coalizioni o a governi di minoranza. Un governo abbarbicato al determinante appoggio annunciato stasera dalla piccola formazione di 10 deputati della destra unionista nordirlandese del Dup (Partito unionista democratico, acronimo di Democratic Unionist Party). Atteso dagli attoniti interlocutori europei per l’avvio dei negoziati sulla Brexit, fra poco più di una settimana, come deciso (per inciso) dalla stessa May quando aveva imposto il timing delle trattative, prospettando (o, meglio, minacciando) una Hard Brexit.

Forse proprio la distanza ravvicinata da un appuntamento tanto cruciale per il destino del Regno Unito potrebbe rappresentare la maggiore garanzia di sopravvivenza al potere per il primo ministro uscente (prima del referendum, a onor del vero, posta nel campo di coloro che, come il suo predecessore David Cameron, parteggiavano contro il “Leave“). Forse l’unica, prima di un addio a Downing Street che nelle parole di molti commentatori, «è ormai solo questione di tempo».

Boris Johnson, fra i maggiori indiziati per sostituire la May

Per quanto riguarda il governo ieri Theresa May ha confermato in blocco i 5 ministri principali (Boris Johnson agli Esteri, Philip Hammond al Tesoro, Amber Rudd all’Interno, Michael Fallon alla Difesa e David Davis alla Brexit), mentre per gli altri dicasteri è previsto un rimpasto parziale, da fare con il contagocce per tenere a bada le varie componenti interne e i malumori postelettorali. Ma, a dispetto delle attese, la partita è difficile che si risolva questa notte.

Sembrerebbe chiusa, invece, con “un accordo di principio” a Belfast la trattativa per assicurarsi la fiducia del Dup della leader Arlene Foster, necessaria per raggiungere la maggioranza di 326 seggi. La chiacchierata capa del movimento, coinvolta in uno scandalo che provocò problemi nell’amministrazione semi-autonoma dell’Ulster (Irlanda del Nord), ha fissato la primaria condizione: sposare una “Soft Brexit“, fondamentale per una terra come l’Irlanda del Nord, a rischio di nuove tensioni se fosse messo in discussione il confine aperto con Dublino.

Ma soprattutto la May ha dovuto abbandonare i capi di gabinetto Hill e Timothy, costretti alle dimissioni per farle scudo dopo essere stati presi di mira dal suo stesso partito (Tory) deciso a metterla “sotto tutela”, per rimpiazzarli con Gavin Barwell, ex sottosegretario (all’edilizia) e uomo d’apparato, uno dei deputati uscenti non rieletti per “colpa” del voto anticipato deciso dal primo ministro uscente. Intanto ha già raggiunto la ragguardevole cifra di 530.000 firme la petizione contro governo May-unionisti lanciata su Change.org da un certo “Winston Churchill”.

Jeremy Corbyn

Chi ha sovvertito i pronostici, soprattutto dei tabloid (Sun, Mail ed Express), è stato il leader laburista Jeremy Corbyn. Il vecchio 68enne pacifista, per alcuni “residuo” socialista del passato, nel giudizio tranchant d’un establishment che al dunque s’è rivelato più superato di lui. Anche perché l’uomo in fin dei conti ha condotto il suo partito alla maggiore avanzata percentuale da quando, nel 1945, Clement Attlee sfrattò Winston Churchill da Downing Street.

Per avere un’idea del contesto, basta sfogliare qualche giornale precedente a giovedì (giorno destinato al voto in Uk, ndr). O dare una scorsa agli archivi online. Gli epiteti di “marxista” ed “estremista“, sono costanti (e fra i più gentili) nella prosa della stampa di destra, Telegraph compreso. Il Mail addirittura definiva il leader del Labour come “terrorista” o “amico di terroristi“. Il Sun di Rupert Murdoch, 20 anni fa blairiano, lo paragona, a urne aperte, a un bidone dell’immondizia.

Nelle stesse settimane le maggiori televisioni del Regno Unito hanno dato spazio quasi solo a notabili laburisti anti-Corbyn: numerosi, per la verità, in Parlamento, e quasi tutti oggi temporaneamente riavvicinatisi al leader “riabilitato” con la rara eccezione di Chris Leslie, protagonista della disastrosa campagna di Gordon Brown nel 2010 che ora rimprovera a «Jeremy di non aver vinto». Ma che pare di aver guadagnato, soprattutto fra i giovani, ben 3 milioni di voti.

John McDonnell a un comizio elettorale

E allora «il Labour è pronto a formare un governo» (anch’esso, ovviamente, di minoranza) come ha dichiarato John McDonnell, numero due del partito e Cancelliere dello Scacchiere ombra, dopo il risultato della notte elettorale. Per Ed Miliband, ex leader laburista uscito sconfitto dal voto del 2015 (con David Cameron, ndr) «Theresa May non può ora negoziare la Brexit perché ci ha detto che perdere la maggioranza avrebbe distrutto la sua autorità. E così è stato». «La “Hard Brexit” è finita nella spazzatura stanotte. Theresa May sarà probabilmente uno dei primi ministri con il mandato più breve della nostra storia», ha dichiarato beffardamente l’ex cancelliere dello scacchiere, il conservatore George Osborne, contrario all’uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

Altra sorpresa delle elezioni britannica quella del risultato scozzese, dove sembra essere finito il dominio degli indipendentisti dell’Snp (Partito nazionale scozzese, acronimo di Scottish National Party) il partito di Nicola Sturgeon che spinge per un nuovo referendum per uscire dal Regno Unito e, magari, non abbandonare l’Unione europea. Indipendentisti ancora primi, ma a differenza del 2015, quando ottennero 56 dei 59 collegi del territorio del nord, stavolta si dovranno accontentare di 32, avendone persi diversi a vantaggio di Conservatori, Laburisti e Liberaldemocratici. Con lo storico leader Alex Salmond, artefice del primo referendum per la secessione della Scozia perso di misura nel 2014, che resta fuori da Westminster.

Per finire rialzano la testa i LibDem filo-Ue di Tim Farron, con 14 seggi contro 8 del 2015, e restano al palo come previsto (zero seggi) gli euroscettici dell’Ukip, ormai orfani di una prospettiva avendo già ottenuto il risultato dell’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, senza il vecchio leader Nigel Farage e fagocitati dalla campagna pro-Brexit della May. Un quadro che sembra rendere il Paese quasi ingovernabile e fa già immaginare nuove elezioni in tempi non troppo lontani. Il Regno Unito si è pronunciato, del resto, giovedì scorso, per la terza volta in tre anni. Dopo il voto del 2015 e il referendum che ha decretato il divorzio da Bruxelles nel 2016, i sudditi di Sua Maestà erano stati richiamati alle urne dalla signora primo ministro con un solo obiettivo: accrescere il suo peso in Parlamento per avere le mani libere al tavolo con l’Ue e su tutti i dossier che contano, dalle incognite sull’economia all’allarme terrorismo. Missione non compiuta.

 

Angie Hughes

Foto © BBC, The Economist

Articolo precedenteDifesa Ue: via libera a comando unificato militare
Articolo successivoCultura svedese a Roma, incontri sulla storia dell’architettura
Angie Hughes
Scrivere in italiano per me è una prova e una conquista, dopo aver studiato tanti anni la lingua di Dante. Proverò ad ammorbidire il punto di vista della City nei confronti dell'Europa e delle Istituzioni comunitarie, magari proprio sugli argomenti più prossimi al mio mondo, quello delle banche.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui