Quale futuro attende gli Stati Non Riconosciuti

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Negli ultimi venticinque anni il loro numero è cresciuto a dismisura, con conseguenti rischi per la stabilità degli equilibri internazionali

In principio furono la Repubblica Democratica Araba del Saharawi nel 1976 e la Repubblica Turca di Nord Cipro nel 1983. La prima proclamata con il sostegno dell’Algeria nel Sahara Occidentale, la seconda come conseguenza dell’occupazione turca dei territori settentrionali dell’isola di Cipro. Due Stati che si univano alle molteplici proclamazioni d’indipendenza che nei vent’anni precedenti avevano caratterizzato la decolonizzazione in Africa, ma che, a differenza delle ex colonie nel Continente Nero, non ottenevano riconoscimento dalla comunità internazionale se non da una sparuta minoranza di governi: “Stati Non Riconosciuti“, come vennero denominati dai manuali di diritto internazionale dell’epoca, a cui venivano dedicate poche righe proprio a testimoniare come quel fenomeno – del tutto inedito – avesse comunque un peso esigua nelle relazioni tra i vari Paesi a cui i giuristi cercavano di dare delle norme a tutela della convivenza pacifica.

Ma da fenomeno isolato, quello degli Stati privi di un riconoscimento internazionale generale è diventato nel corso degli ultimi venticinque anni una spina nel fianco nelle relazioni internazionali di molte nazioni, incluse le grandi potenze. La caduta del comunismo, che ha riguardato molti stati multietnici, ha fatto da moltiplicatore a quelle che negli anni Settanta e Ottanta erano solo realtà isolate: gli effetti della dissoluzione di Urss e Jugoslavia (giusto per citare i più importanti) non si sono esauriti con la nascita dell’amorfa Comunità degli Stati Indipendenti e con le guerre balcaniche, ma sono continuati anche dopo, portando alla nascita di nuove autoproclamate entità statali che hanno obbligato il diritto internazionale ad aprire ad una nuova consuetudine. Quella, appunto, degli Stati Non Riconosciuti, che come i precursori di Saharawi e Nord Cipro, si davano una propria struttura statale, con un proprio governo e soprattutto una propria diplomazia: tanto che il primo passo di queste nuove entità è stato sempre quello dello scambio di ambasciatori con il proprio “padrino” politico.

donetsk_flagLa Transnistria russofona in Moldova e il Nagorno-Karabakh armeno in Azerbaigian sono stati i primi esempi di questa appendice indipendentista, della quale poi sono diventate parte le  russofone Abkhazia e Ossezia del Sud, resesi indipendenti dalla Georgia nel 2008, pochi mesi dopo la secessione del Kosovo  dalla Serbia.  Ultimi casi in ordine di tempo sarebbero le Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk, nell’Ucraina russofona: il condizionale è d’obbligo, poichè in questo caso non è ancora chiaro se le due entità vogliano diventare due realtà distinte e sovrane, se vogliano invece federarsi in un’unico Stato (la Novorossija), o se addirittura siano disponibili a restare parte dell’Ucraina, una volta che la sua forma di stato sia stata riformata in senso fortemente federale.

Con la sola eccezione della Transnistria, i territori appena elencati hanno tutti un comun denominatore: sono stati teatro di guerra. Il che vuol dire molto semplicemente che la presenza degli Stati Non Riconosciuti nelle relazioni internazionali rappresenta una potenziale fonte di instabilità, riconducibile alla loro stessa essenza: la differenza tra una colonia che si rende indipendente dalla Madrepatria e uno Stato Non Riconosciuto passa attraverso un fattore “terzo” che si insinua nel rapporto tra Madrepatria e territorio irredentista. E il “terzo incomodo”, nella stragrande maggioranza dei casi, ha le fattezze di un altro Stato, interessato a sostenere la secessione per un proprio tornaconto prettamente e economico, ma anche in base a pura logica del divide et impera. Esempi classici: la Turchia con il Nord Cipro, Usa e Ue per il Kosovo, la Russia per l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, l’Armenia per il Nagorno Karabakh.

Nord CiproProprio a proposito di quest’ultimo, poche settimane fa la ventennale crisi tra Azerbaigian e Armenia ha nuovamente raggiunto livelli di tensione molto preoccupanti. Ipotizziamo che la situazione nella repubblica ribelle precipiti e che l’Azerbaigian compia un blitz per riprendere il controllo del Nagorno-Karabakh. Trattandosi di un territorio che la comunità internazionale riconosce come parte dell’Azerbaigian, il governo di Baku si muoverebbe sicuro di non commettere illecito invadendo un territorio che non è ritenuto sovrano. L’Onu infatti, non essendo il Nagorno-Karabakh un membro delle Nazioni Unite nè riconoscendone l’indipendenza, non poterebbe considerare quell’operazione interna un’aggressione bellica.

Ma a questo punto l’Armenia non potrebbe non intervenire militarmente in soccorso del Nagorno-Karabakh, nel nome del diritto all’autodeterminazione che ha i suoi precedenti nel Kosovo (la cui indipendenza è invece riconosciuta da quasi tutti i membri dell’Alleanza Atlantica) e in tutti gli altri Stati Non Riconosciuti. Il risultato sarebbe un nuovo conflitto nell’area ex sovietica, sul quale i tentativi di pacificazione si arresterebbero subito a causa allo status indefinito del pomo della discordia.

Questo inquietante scenario, per nulla remoto, deve appunto mettere in guardia la comunità internazionale sul rischio per la stabilità internazionale costituito dal moltiplicarsi di soggetti politici privi di un definito status giuridico, come appunto sono gli Stati Non Riconosciuti. Ciò non vuol dire però che il diritto dei popoli all’autodeterminazione deve essere negato. Tutt’altro: il compito che spetta alle organizzazioni internazionali, Onu in primis, è quello di disinnescare questa bomba a tempo colmando il vuoto giuridico che caratterizza situazioni come quella del Nagorno-Karabakh e simili.

La comunità internazionale dovrebbe innanzitutto modificare le procedure con le quali uno Stato può diventare membro dell’Onu: si tratta di un fattore cruciale, perchè, come abbiamo visto, senza questo status le Nazioni Unite non potranno mai considerare come aggressione militare un attacco della Madrepatria contro un territorio secessionista. Per far questo, si potrebbe rispolverare un vecchio istituto caduto in disuso: il mandato Onu.

In questa maniera, i territori sui quali nessun Paese esercita una forma di sovranità internazionalmente riconosciuta potrebbero vedersi riconoscere lo status di “Mandatario”, e come tali verrebbero guidati da amministrazioni o agenzie speciali dell’Onu sulla base del rispetto dei diritti umani e delle libertà sancite dalle convenzioni e dalle dchiarazioni fondamentali delle Nazioni Unite. E non sarebbe poco.

L’applicazione del Mandato agli Stati Non Riconosciuti comporterebbe in particolare tre vantaggi, in grado di trasformare le grane attuali in una opportunità di rafforzamento dell’ordine mondiale. Il primo è che il nuovo status permetterebbe a questi territori di rispettare i diritti umani, emettere passaporti speciali per i propri cittadini, ospitare consolati di nazioni estere, appellarsi alle corti internazionali per la risoluzione di contenziosi e stabilire normali relazioni commerciali con Paesi terzi. Il secondo è che queste misure fungerebbero da basi su cui costruire nuove relazioni che possano far superare il clima di sospetti e reciproche accuse: il nuovo ordine si cristallizzerebbe dal caos. Il terzo, è che l’Onu si riapproprierebbe del ruolo per cui è stata costituita settant’anni fa. Una cura che potrebbe funzionare: perchè non sperimentarla, anche a piccole dosi?

Alessandro Ronga

Foto © Wikicommons

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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