Per gestire i flussi migratori all’Italia servono norme sul diritto d’asilo

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L’emergenza-migranti può essere affrontata adeguatamente approvando una normativa strutturata, che oggi ancora manca nel nostro ordinamento

Nel lessico comune e in quello giornalistico si tende con troppa facilità ad adoperare la parola “profughi” a proposito dei migranti che in decine di migliaia, a partire dal 2015, sono giunti sul territorio italiano: in un primo momento la si è impiegata nei confronti dei rifugiati dalla Siria e dall’Iraq che fuggivano in Europa per salvarsi dai massacri dell’Isis, poi, con sempre maggior frequenza, la si è utilizzata in riferimento ai cosiddetti “richiedenti asilo”, che arrivavano dall’Africa in cerca di un futuro migliore. Ma trarichiedenti asiloe rifugiati c’è una differenza non da poco, che rende impossibile accomunarli sotto il termine “profughi”.

Un rifugiato è colui che chiede protezione internazionale all’estero perché spinto da una necessità di salvaguardare la propria integrità fisica, messa a repentaglio da una determinata situazione persecutoria vigente nel suo Paese, dove egli corre un rischio personale, specificamente riferito a lui e a coloro che si trovano nella sua medesima condizione per motivi etnici, religiosi, politici o appartenenza a determinati gruppi sociali. Si pensi, ad esempio, alle minoranze etniche o a quelle religiose, oppure alle comunità Lgbt: categorie di individui che, in alcune parti del mondo, sono oggetto di persecuzione da parte delle autorità per motivi che non riguardano gli altri individui componenti la comunità nazionale.

Questa specifica situazione persecutoria personale non è però detto che sussista nel caso di colui che ad un altro Paese richiede asilo: anch’egli si trova in una condizione di impedimento a godere dei diritti fondamentali sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ma si tratta di una condizione non specificamente riferita a lui, né ad una determinata categoria di componenti la società. È una condizione bensì generica, ossia in comune con gli altri individui che compongono la comunità statale in cui egli vive: si pensi ad uno Stato in cui vige il monopartitismo, dove il divieto di costituire partiti politici vale per tutti i cittadini. In termini bruschi, potremmo affermare che il rifugiato lascia il proprio Paese perchè spinto da una necessità, quella di sfuggire ad una persecuzione (per la sua etnia, il suo credo, le sue idee, il suo orientamento sessuale) che mette a rischio la sua vita, mentre l’asilante lo fa per una scelta, quella di godere altrove di diritti che gli vengono negati in patria, non dettata da un imminente rischio di subire un danno fisico dalla mancanza di tali diritti.

Dunque, le richieste di protezione internazionale e quelle di asilo non sono tecnicamente la stessa cosa, anche perché uno Stato deve gestire le prime sulla base di quanto disposto dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, ma può gestire le seconde sulla base del proprio diritto interno, non avendo la Dichiarazione sui diritti dell’Uomo (da cui il diritto d’asilo trae fonte) una forza convenzionale: ciò significa, in poche parole, che se da un lato uno Stato non può sottrarsi alla concessione dello status di rifugiato quando ne ricorrano le condizioni, dall’altro conserva la propria sovranità dinanzi ad una richiesta di asilo, decidendo di concederlo o rifiutarlo sulla base della propria normativa interna. Se pertanto la concessione dell’asilo è, in ogni caso, rimessa alla discrezionalità di cui lo Stato dispone nell’ambito dell’esercizio della propria sovranità territoriale, il problema dell’Italia (che aderisce alla Convenzione del 1951) è quello di non avere mai dato seguito alla norma precettiva dell’articolo 10 comma 3 della Costituzione, varando cioè una normativa interna per concedere l’asilo allo straniero a cui fosse stato impedito nel proprio Paese l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Carta del 1948. Il legislatore, nel corso del tempo, si è limitato a importare le direttive comunitarie in materia di immigrazione, che di fatto oggi normano la nostra politica di accoglienza attraverso i relativi decreti legislativi di recepimento: è il d.lgs. 25/2008, integrato e aggiornato dal più recente d.lgs. 142/2015, a regolamentare nel nostro ordinamento le procedure per la concessione della protezione internazionale ai rifugiati, e della cosiddetta protezione sussidiaria a coloro che non sono oggetto di persecuzione ma vivono in zone dove è presente un conflitto armato che mette a rischio la loro incolumità.

Stando ai dati del Viminale, sulle nostre coste sono sbarcati lo scorso anno prevalentemente nigeriani, guineani, ivoriani, bengalesi, maliani, eritrei, sudanesi, tunisini, marocchini e senegalesi. Con eccezione dell’Eritrea e del Sudan per i loro regimi autoritari, e della situazione di conflitto interno con i terroristi di Boko Haram in alcune aree nel Nord-ovest della Nigeria (da dove però molti profughi provenienti dalle regioni coinvolte hanno cercato rifugio soprattutto nei limitrofi Ciad, Niger e Camerun), bisogna rilevare che nel 2017 in nessun altro di tali Paesi di provenienza c’erano guerre, o sussistevano situazioni di pericolo o di violenze tali da giustificare le loro richieste dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria. Oltretutto, e con i dovuti limiti, in quasi tutti vigevano regimi democratici e multipartitici, dove almeno formalmente venivano garantiti i diritti umani.

La maggior parte delle persone che negli scorsi dodici mesi sono emigrate in Italia lo hanno fatto dunque per altre ragioni, prettamente economiche, che però abbiamo visto non costituiscono motivo di permanenza nel territorio italiano. O meglio, non costituirebbero: già, perchè all’articolo 32 comma 3 del sopra citato decreto legislativo 25/2008 è infatti previsto il permesso di soggiorno per motivi umanitari, strumento contenuto già dal Testo Unico sull’immigrazione, che può essere concesso agli stranieri privi dei requisiti per ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. In cosa consistano i motivi umanitari di cui si fa riferimento non è chiaro: le molteplici interpretazioni rendono la gamma di opzioni tanto ampia quanto vaga, e ciò di fatto ha trasformato il suddetto comma in una vera e propria falla nel nostro sistema di accoglienza. Perchè sulla base di motivi personali di disagio, povertà o di degrado addotti dal migrante, le Commissioni territoriali per il diritto d’Asilo possono chiedere alle Questure il rilascio del permesso umanitario, che permette al richiedente l’accesso al Servizio Sanitario Nazionale, alla formazione-lavoro, ai centri di accoglienza Sprar e alle misure di assistenza sociale previsti per i titolari di protezione internazionale. Ma soprattutto, consente allo straniero l’ingresso in Italia senza il visto lavorativo e il nullaosta all’assunzione, dai quali invece un permesso di soggiorno per motivi di lavoro non può prescindere. Forse per questo motivo negli ultimi dieci anni il rilascio del permesso umanitario ha registrato una vera e propria impennata: l’Istat ha registrato come nel 2016 solo il 5,7% dei permessi di soggiorno rilasciati fossero legati a motivi lavorativi (nel 2007 costituivano ben il 56% del totale), a fronte di un 34% di permessi rilasciati per motivi di carattere umanitario (+6% rispetto all’anno precedente).

Chi conosce un po’ la storia recente africana si domanderà, a questo punto, perché questo enorme flusso di richieste non si è verificato nello scorso decennio, quando alcuni Paesi da dove i migranti arrivano massicciamente (ad esempio la Costa d’Avorio, il Mali e la Guinea) vivevano una condizione di forte instabilità politica e sociale. Davvero tutti coloro che nel 2016 si sono visti concedere il permesso umanitario si trovavano in condizione tale da poter accedere alla misura, o forse qualcuno ne sta abusando? Quel crollo contemporaneo delle domande di permesso di lavoro lascia il sospetto che qualcosa non stia funzionando a dovere nel nostro sistema di accoglienza, e che il permesso umanitario, complice la scarsa chiarezza delle norme che lo introducono e lo regolano, stia diventando una scappatoia per aggirare le norme sull’immigrazione. Sia chiaro: il problema non è lo strumento normativo, che rispecchia l’art. 10 della Costituzione, ma proprio la sua ambiguità. E se con questa norma il legislatore, a suo tempo, aveva voluto dare una prima attuazione alla Costituzione per ciò che riguarda il diritto d’asilo, l’interpretazione che si sta dando oggi è molto lontana da quel precetto. Ecco il motivo per cui è indispensabile dare una vera attuazione all’articolo 10 della Costituzione, superando il permesso di soggiorno umanitario e regolamentando nel dettaglio le condizioni per le quali uno straniero ha diritto o non ha diritto a godere dell’asilo in Italia: mai come in questo momento serve una normativa organica che separi, con precisione, chi arriva in Italia perché nel proprio Paese non può godere dei diritti fondamentali che spettano ad ogni essere umano, da chi di questi diritti già gode e giunge in da noi semplicemente perché alla ricerca di un lavoro migliore e migliori condizioni di vita.

 

Alessandro Ronga
Foto © Wikicommons-Noborder Network/European Community/IOM

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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